venerdì 20 dicembre 2013

La signorina Papillon, di S.Benni. Teatro Kopo. Recensione

Uno spettacolo veloce esige una recensione veloce, nonostante l'orologio già ricordi i lunghi e mattutini impegni di domani. Ma se consideriamo i soli tre giorni di repliche de La signorina Papillon di Stefano Benni in scena al Teatro Kopo, è uno sforzo che possiamo - e dobbiamo - sostenere. È stato come un colpo di pistola bruciante, improvviso, fulmineo, ha attraversato la sala in maniera repentina, tanto che un piccolo vortice d'aria sembra essere rimasto a far vibrare ancora un piccolo grumo di suoni. Una messa in scena brillante, a tratti imprendibile, che molto si confà al suo autore, Stefano Benni, noto soprattutto come scrittore ma che ha all'attivo anche molti scritti per il teatro. Un mondo che non gli ha dato pari fortuna della letteratura, forse perché fuori tempo limite - la scena tra i duellanti ricorda molto quella dei coniugi Smith di un certo Ionesco - o magari perché troppo inclini a considerare la farsa o l'assurdo come generi distaccati e inadatti a comunicare il contemporaneo. Eppure spesso sotto la superficie giocosa di un testo di Benni, si nascondono dei piccoli fotogrammi che ritraggono la nostra società. Come i personaggi che appaiono ne La signorina Papillon, una giovane spregiudicata e mondana, a caccia di fama e uomini, un militare massone bramoso di potere, un poetuncolo che svilisce i propri scritti per cibare il volere popolare. Infine Rose (Sabrina Maggiani), una timida ragazza in fuga dalla realtà, rinchiusa nel suo sogno parigino di tardo ottocento. Rose è troppo timorosa per rispondere alle proprie pulsioni, così, come degnamente si addice ad una ragazza ottocentesca, chiusa nel suo giardino colleziona farfalle e dipinge rose. Mentre i tre personaggi - reali o immaginari - le narrano di Parigi, delle ultime mode, le stramberie del linguaggio e della mondanità parigina, in Rose fiorisce il mito, le situazioni si accavallano diventando surreali, imprevedibili e contradditorie. 




Nel continuo scontrarsi di sogno e realtà, entrano in collisione i due mondi, l'ottocento e l'odierno. Questo in scena è abbastanza evidente, perché i personaggi sono vestiti in abiti che richiamano un tempo passato, ma appaiono anche altri oggetti più squisitamente moderni, come un orologio da polso col cinturino in plastica nera o un registratore vocale. Si è continuamente indotti alla confusione, al dubbio di quale tempo si stia vivendo. E c'è solo un tempo dove la convivenza tra due mondi può essere plausibile, ed è quello onirico. La regia molto ragionata di Francesco Marchesi  tenta di riprodurre questa continua illusione, Rose è posta in una sorta di bozzolo bianco, come fosse una fanciulla in attesa anche lei di sbocciare o divenire una farfalla. Non un bianco netto, ma un bianco più opaco, come quello indefinito dei sogni; i personaggi quando entrano in scena sembrano filtrare da una specie di nuvola. I toni sono grotteschi e irrealistici, parola e movimento scenico si fondono spesso in un unico linguaggio. Piace soprattutto come Francesco Marchesi sia riuscito a trovare un codice molto strutturato e preciso al suo linguaggio corporeo. Una tale impostazione, fosse stata approfondita anche nei personaggi di Andrea Mosti e Priscilla Bertelloni - i cui movimenti erano studiati, ma più tendenti al convenzionale - avrebbe avuto interessanti effetti. Scenicamente non si ricercano grandi effetti, ma tutto deve passare per la parola, così gli attori - e le luci - diventano il veicolo fondamentale per trasmettere il sogno di Rose. Tutto si gioca sul ritmo e l'energia, le parole si fanno quasi inafferrabili, come un'immensa colonia di farfalle, impossibile vederle tutte quante. Ne prendiamo il più possibile col retino, ma non sempre riusciamo. Gli attori sono preparati tecnicamente e non si perde una sillaba, ma si sente a volte la necessità di un dilatamento, per poter metabolizzare la parola acuta di Benni e poi ripartire. Un lusso che non ci viene concesso, afferriamo dunque il prendibile e lasciamo sfilare il resto, frutto certamente di un lavoro attentissimo e senza sporcature. Un gruppo da seguire, pieno di verve, con già altre lavori in cantiere e una direzione, quella di Francesco Marchesi dalla personalità brillante e viva. Al Teatro Kopo fino a domenica 22. 
Matteo Di Stefano



LA SIGNORINA PAPILLON di S.Benni
regia Francesco Marchesi
con Andrea Mosti, Priscilla Bertelloni, Sabrina Maggiani e Francesco Marchesi

dal 20 al 22 dicembre presso

TEATRO KOPO 
Via Vestricio Spurinna 47 - Roma
Biglietti: intero €10 - ridotto €5

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mercoledì 18 dicembre 2013

È morta zia Agata!?!: quando l'intrattenimento è positivo. Teatro Millelire. Recensione

 dal 17 al 31 dicembre al Teatro Millelire



Non amiamo né le commedie musicali, che consideriamo un ibrido senza spina dorsale, né tantomeno le commedie fine a se stesse, che non mirano ad altro se non quello di una sorda e vuota risata. Eppure, contro ogni pronostico dei presenti, siamo usciti col sorriso e una mano tesa. Prima di tutto perché abbiamo visto in scena dei bravi attori, senza quella fastidiosa deriva ammiccante e volgarizzante; secondo poi perché il disegno di È morta zia Agata!?! scritto e diretto da Lorenzo De Feo in scena al Teatro Millelire si regge quantomeno su una idea di regia chiara, lucida, leggibile, che predilige la pulizia all'intrattenimento nudo e crudo; infine perché nonostante la semplicità della struttura e della storia, vi è comunque qualcosa da comunicare, il quale ha a che fare con il nostro contemporaneo. Lo svilimento di ogni valore umano nel nome di un facile arricchimento personale, il dominio del denaro sulla virtù e la bontà. 
È la storia di tre avidi cugini e una ricca zia dalla pelle dura, i quali prima organizzano un piano congiunto per eliminare la vecchia zia, poi iniziano a tramare l'uno contro l'altro per essere gli unici vincitori. Chiaramente i risvolti non sono quelli sperati, perché quando gli alleati tramano alle spalle degli stessi, il risultato diviene quello di un'autodistruzione di massa. Quello che succederebbe nel caso di una guerra atomica globale, dove tutti cercando di distruggere tutti finirebbero per distruggere se stessi. Questo avviene, in fin dei conti in maniera abbastanza prevedibile, ma ci si arriva in maniera gradevole, con una risata garbata e non forzata. Privilegiando un allestimento che richiama subito l'idea del fumetto o d'un cartoon, con scenografie dipinte su dei pannelli, abiti sgargianti dai colori vivaci e trucchi vistosi, si è voluto aderire e ricalcare la sopradetta semplicità narrativa. Un'impostazione che rende lo spettacolo aperto ad un pubblico di tutte le età, da vedere con la famiglia coadiuvata dai più piccoli componenti, certamente preferibile per vivacità ed eleganza agli ormai avariati palinsesti cinematografici natalizi. Se c'è da scegliere l'intrattenimento, quantomeno che sia un'intrattenimento positivo. Una buona regia e dei bravi attori, quali citiamo soprattutto Mariano Riccio - impassibile e mai eccessivo nel ruolo del malato mentale Teo, col merito  di non averlo fatto mai apparire uno stupido anche quando ciò era palese - e Jessica Zanella - la subdola Cuneconda, una Crudelia meno terrificante, più enfatica del collega ma altrettanto brava e che in alcune controscene ci ha ricordato la Marchesini -, affiancati da Antonio Lupi, forse troppo simile ad altri personaggi da lui intepretati. 

Intorno ai tre protagonisti le due figure jolly, Gabriele Mangion e Mario Piana, ora servi di scena, ora burattinati o personaggi aggiunti o controscenisti, la cui riuscita è dovuta soprattutto all'effetto comico del loro sincronismo. Tolte le gag, si ride anche per il connubio tra tempi comici e linearità della battura (soprattutto in Mariano Riccio), in momenti che probabilmente non volevano essere necessariamente comici. Va detto inoltre che per la prima volta vediamo sfruttato pienamente il piccolo spazio del Teatro Millelire, sia a livello illumotecnico che scenografico. Insomma una bella favoletta con morale finale raccontata con precisione. Tutto perfetto dunque? Sia mai! Le canzoni ancora una volta ci distraggono, interrompono la consequenzialità e - tolte le solite qualità degli intepreti - ci spingono a scambiare due parole coi vicini. I testi risultano troppo banali, tramutano lo spettacolo da aperto a tutti a "per un pubblico dai 5 agli 8 anni" ed hanno quel non so che di stacchetto televisivo. Superflue anche sono alcune sensualità gratuite durante i detti stacchetti che abbiamo trovato decontestualizzate. Abolito mentalmente il deficit di queste scelte - contro le quali poco c'è da fare, essendo ormai un marchio di fabbrica nelle produzioni targate Millelire - per una volta siamo controcorrente persino a noi stessi, ammettiamo la sconfitta e suggeriamo senza troppi sofismi contenustici l'allegra black comedy (musicale) È morta zia Agata!?! come una possibile scelta teatrale per il periodo natalizio.
A.A.

È MORTA ZIA AGATA!?!
scritto e diretto da Lorenzo De Feo
con Gabriele Mangion, Mario Piana, Mariano Riccio, Antonio Lupi e Jessica Zanella

dal 17 al 31 dicembre presso

TEATRO MILLELIRE
Via Ruggero De Lauria 22 - Roma


 
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sabato 14 dicembre 2013

Eva Braun, l'altra metà del fuoco. Teatro Millelire. Recensione




Non riusciamo a trovare un punto di partenza. La serata si è raffreddata nel bunker dove Adolf Hitler e Eva Braun hanno scelto di suicidarsi insieme. L'uomo che ha ormai incarnato l'immagine del male - lasciando in eredità la più grande tragedia della storia dell'uomo - ed Eva Braun, sua amante per 13 anni, moglie per un giorno, vedova per pochi minuti. Per una sera è il teatro Millelire a farsi bunker, la platea un piccolo e poco affollato strumento di tortura in cui si compie un olocausto teatrale. Sì, perché, qualcosa sfugge, nella trama di Eva Braun, l'altra metà del fuoco. Lo spettacolo ripercorre gli ultimi minuti della vedova di Hitler, prima che il veleno faccia effetto. Lo fa servendosi di un altro personaggio storico, Antonia Pozzi, poetessa italiana dei primi del novecento, morta suicida molto giovane. Ciò che le lega è il comune destino del suicidio per amore. Antonia viene inviata dal Signore del Giardino dei Suicidi a prelevare la Braun e tentare un ultimo tentativo di redenzione, aiutandola a ridimensionare il mito di Hitler. Sebbene con l'immaginazione possiamo convincerci della bontà dell'intuizione, si fatica a coglierne direzione e soprattutto l'utilità comunicativa di tale approccio, soprattutto perché dallo scontro non emerge nulla di rilevante. Il clima spesso diviene di un melenso che richiama alla mente certe soap-opera, Antonia ha un atteggiamento inquisitorio, annota tutto su un taccuino e il suo è più il piglio di una detective che non di una redentrice. Per raggiungere il suo obiettivo Antonia sviscera i suoi atti di accusa contro l'uomo amato da Eva, alcuni dei quali appartengono al ramo delle ipotesi non confermate. Emergono 50 minuti di interrogatorio da cui esce davvero poco, manca un lavoro d'indagine profonda sulla figura di Eva Braun, manca la prodondità emotiva di una donna che non si curava degli atti del suo amante, ma che si sentiva trascurata e messa in secondo piano dai suoi obiettivi politici. Che non sia stata poi una donna intelligente come altre donne che il Fuhrer frequentò è un fatto, ma questa Eva Braun è davvero vittima di una costruzione superficiale, mal sorretta dall'interpretazione di Antea Magaldi risultata priva di spessore, troppo enfatica nei toni che imitavano soltanto l'emozione.
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"Non ci credo!", tanto lontano dal raggiungere una credibilità che se non sapessimo di cosa  tratti lo spettacolo, potremmo persino confonderla con un personaggio di una commedia borghese. In fondo il suo desiderio di essere la prima donna di Germania era un sogno piccolo-borghese, gli anni passati nella residenza di Obersalzburg, tra servitù, vestiti e cosmetici costosi, cambi d'abito ogni ora e parrucchiere ogni giorno, ma non c'è nella sua rappresentazione alcun fascino, né pietà, non c'è il sottostrato di una donna vissuta 13 anni viziata e trascurata a fianco dell'uomo più spietato della storia e che tentò due volte il suicidio; eppure ci sarebbe tanta ciccia da mettere in un personaggio come Eva Braun, si può scegliere di renderlo patetico o frivolo, freddo o magnetico, impenetrabile o vulnerabile, un ventaglio infinito di ipotesi che tenti di spiegare cosa legasse tanto questa donna - a parte lo stare accanto ad un uomo potente - ad Hitler, dove piantasse davvero le radici questo amore. Invece lo si è reso inconsistente, sterile, forse fuorviati dall'idea di una donna non raffinata e intelligente come le altre amanti di Hitler, il che però non significa certo mancanza di una personalità complessa. Alla fine ciò che vediamo è una donna molto simile a un'innocente Giulietta innamorata che si uccide per il suo Romeo coi baffetti e lo sguardio inquietante. C'è da aggiungere, a discolpa, che le attrici sono molto giovani, dai tratti ancora immaturi. Apprezziamo il coraggio della scelta e dell'autoregia curata dalla stessa Antea Magaldi, ma forse una regia esterna avrebbe quantomeno salvato il salvabile. 
A.A.



EVA BRAUN, l'altra metà del fuoco.
di Alessandro Valenti
con Antea Magaldi e Carlotta Oggioni

fino a domenica 15 presso

TEATRO MILLELIRE
Via Ruggero di Lauria 22 - Roma
Biglietti: intero €12 - ridotto €6.50

 
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mercoledì 11 dicembre 2013

La visita di oggi di Andrea Zanacchi, Teatro Trastevere. Recensione

Ci resta impresso soprattutto quel momento di intimità finale, di verità, quell'autenticità spogliata da ogni teatralità farsesca, da ogni finzione. Arriva quando si è giunti alla risoluzione e tutti i tasselli drammaturgici hanno fatto chiarezza sulla situazione. È il momento più denso dello spettacolo, quello da cui forse occorrerà retrocedere e contaminare tutto il resto. Non uno spettacolo brutto, né scadente risulta il testo, appare però viziato da certi "italianismi" duri a morire, ancora troppo verbosi, mimici, didascalici. Si dice troppo, e non lo si dice per raccontare, ma per spiegare, come se una battuta fosse il ribadire un concetto appena espresso per renderlo più chiaro, come se una smorfia facciale serva a commentare uno stato d'animo. Non ce n'è bisogno, o non ce n'è bisogno in quantità eccessiva. C'è un sottostrato emotivo che diventa tanto più diretto quanto più si rinuncia all'orpello. Lo spettacolo La visita di oggi scirtto da Andrea Zanacchi e diretto da Manuela Bisanti, andato in scena al Teatro Trastevere, ha vissuto un po' dell'uno, un po' dell'altro, a fasi alterne si è sfiorata la semplicità che muoveva verso la verità comunicativa; altre volte invece il gioco ha prevalso, l'eccesso di frenesia ha reso la messa in scena più briosa, ma allo stesso meno coinvolgente. Il testo estremamente surreale - con spunti degni di nota - si prestava certamente sia all'uno che all'altra lettura, ma quell'ultimo frammento ci ha fatto capire quanta sostanza in più sarebbe potuta emergere. 


Armando e Ermanno sono due uomini che si ritrovano misteriosamente nella stessa stanza di un manicomio, intrappolati in una camicia di forza. Ermanno è un pubblicitario, si trova lì per errore. Armando invece sembra ormai accettare la sua condizione di malato di mente, sebbene la sua sembri una follia forzata dalla volontà di fare il matto, piuttosto che una reale infermità; è anche quello che molto spesso appare più lucido nelle analisi. La reclusione forzata spinge i due coinquilini psichiatrici a ricercare un dialogo, un confronto, persino una conoscenza dell'altro, nonostante per un matto sia difficile prima di tutto conoscere se stesso. Infatti tolto qualche episodio personale che viene raccontato, i due restano sempre sul chi va là e col sospetto di chi sia quello strano individuo che si trova davanti. Dei due, come si diceva, sembra Armando quello che più riesce ad andare a fondo. Dà l'impressione di sapere molte più cose di Ermanno di quanto non sappia egli stesso di sé. Armando coinvolge nel suo gioco della follia Ermanno, quest'ultimo inizia a vacillare, come se la pazzia non fosse altro che una condizione indotta. L'obiettivo è quello di spingere Ermanno verso l'autoanalisi e la conoscenza di sé stesso. La svolta finale lascia di sorpresa e capovolge completamente ciò che fino a quel momento si era creduto. 

Emerge una follia raccontata come non conoscienza di se stessi, come risposta ad una condizione di isolamento sociale. I due attori sono brillanti, la loro recitazione predilige il ritmo, ci sono pochi silenzi - ma quando ci sono diventano penetranti - però a volte non si parlano davvero; Andrea Zanacchi, sebbene suo era il ruolo del matto, è sembrato più posato e calcolato, la sua recitazione ha mostrato più sfumature - e fors'anche sporcature dovute a qualche spunto all'impronta - rispetto a quella di Giampaolo Filauro, la cui performance è risultata un po' troppo frenetica, poco reattivo in ascolto, spesso ridondante in un'atrofia ritmica che ha toccato spesso la stessa nota d'agitazione. Magari ha solo eseguito gli ordini di regia, perché alla fine è tutto suo il momento di chiusura, quel momento di estrema sincerità in cui lo vediamo in una veste totalmente diversa, da cui emergono pause, colori, pensieri e verità di sentimento. Crediamo che si possa rendere ancora più attraenti spettacolo e testo - già degni di attenzione - se si provasse a percorrere quest'ultima strada, per raggiungere strati più profondi, come lo è la nostra condizione di uomini soli e un po' folli, come i temi trattati hanno lasciato intravedere per poi nascordersi dietro il velo protettivo della quarta parete. 
A.A.

LA VISITA DI OGGI di Andrea Zanacchi
con Andrea Zanacchi e Giampaolo Filauro
regia Manuela Bisanti

visto al

TEATRO TRASTEVERE
Via Jacopa de' Settesoli 3 - Roma




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martedì 10 dicembre 2013

Il coraggio fa..90. Cronaca calcistica, familiare e storica al teatro Kopo.


Quando avranno il coraggio di tirare un altro calcio di rigore saranno degli eroi.Nella vita la paura la vinci solo se hai il coraggio di affrontarla un'altra volta


Il monologo è la forma teatrale più ostica, la preferita da molti interpreti, probabilmente la più temuta dagli spettatori. Siamo sempre prudenti verso questa forma espressiva, nonostante alcuni degli spettacoli che abbiamo preferito siano proprio monologhi. Se l'attore lo regge, se riesce a farsi carico dell'intero palcoscenico con la voce e il corpo, allora ti spelli le mani dagli applausi per quel solo interprete che ha saputo emozionarti e stamparsi nella tua memoria, occupando a lungo (o in rari casi per sempre) una frazione della tua esistenza. Ma - c'è sempre un ma - se mancano le condizioni attoriali, oltre che drammaturgiche, i primi cinque minuti ti fanno capire che sarai sottoposto ad una tortura che si consumerà lentamente. Lo spettacolo Il coraggio fa.. 90 appartiene fortunatamente al primo tipo. Non sappiamo se e per quanto tempo Giuseppe Arnone occuperà i nostri ricordi, ma certamente il suo primo monologo da autore è ben riuscito, tanto quanto lo è stata la sua traduzione scenica in cui lo stesso Arnone occupa l'unico ruolo. Il gradimento del pubblico è stato elevato, tre serate praticamente piene al novello Teatro Kopo, più una replica aggiuntiva a richiesta per domenica prossima.
Il testo è in parte autobiografico, parte dal vissuto dell'autore per diventare materia teatrale fruibile nel rispetto della riservatezza. I riferimenti sono tanti, a partire dall'apertura quando il protagonista si presenta in perfetta tenuta bancaria e l'accento milanese (nella seconda parte sarà il dialetto siciliano a prevalere, vera origine dell'autore/attore). È l'altra parte di Giuseppe Arnone, quella che vive di giorno; infatti egli davvero lavora in banca quando non fa l'attore (un caso isolato, solitamente gli attori fanno i camerieri). Non faremo il nome, ma noi saremmo volentieri clienti di una banca che abbia come impiegato il simpaticissimo e vivace Arnone. 


Da buon italiano il protagonista banchiere porta con sé la gazzetta dello sport, all'interno della quale si trova l'incidente scatenante del ricordo, quello che mette in moto la macchina del tempo della memoria emotiva e nello scorrere indietro riporta ai mondiali degli anni 90, quelli di Baggio, Schillaci, Bergomi, Zenga, Bergomi e.. lo iettatore Bruno Pizzul. Campioni che diventano spesso parodie, ma che sono per il protagonista anche sensazioni positive: l'euforia del primo mondiale, l'atmosfera di casa con la famiglia tutta riunita attorno al televisore, l'osservazione da vicino di ogni singolo componente. Il calcio è l'elemento che spesso ha unito il popolo italiano, ma la telecronaca calcistica si accavalla anche alla fotografia di un'epoca, al racconto del primo amore, delle prime delusioni, del rapporto con la famiglia, degli insegnamenti dell'ormai leggendario Nonno Turi. Lo spettacolo scivola via, è come una saponetta bagnata, inafferabile, si passa dalla partita alle emozioni personali, dalle parodie a omaggi di poeti di nicchia come Fosco Maraini  (c'è una poesia "con parole inventate" tratta da Gnosi delle Fanfole). Arnone gestisce la giostra, diretta da Claudio Zarlocchi, serpentina tra i 50 spettatori in sala come fece Roberto Baggio fece con i cinque avversari, con maestria e uno studio attento che si spinge fino alla cura del gesto. Gli applausi sono meritati, qualcuno quasi surreale, come quello a scena aperta mentre il fu banchiere diveniva tifoso indossando la divisa e i calzettoni azzurri della nazionale: chiamatelo se volete patriottismo calcistico. L'Italia è fuori, è la prima sconfitta sportiva per il giovane Giuseppe, ma sono anche i primi insegnamenti che da questa avventura ne sono derivati; la perla finale è dello zio Rosario, parente aggiunto della pièce, che in un caloroso e commosso omaggio viene svelato soltanto alla fine: Rosario Livatino, magistrato italiano assassinato ad Agrigento il 21 settembre del 1990. È la conferma definitiva che Il coraggio fa... 90 è più interessante di una semplice cronaca calcistica.
Matteo Di Stefano



IL CORAGGIO FA... 90
di e con Giuseppe Arnone
regia di Claudio Zarlocchi

6-7-8 + a grande richiesta domenica 15 presso

TEATRO KOPO'
via Vestricio Spurinna 47/49 (zona cinecittà)
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