In questo titolo c’è già l’essenza stessa dell’esperienza non-esperienza a cui ho assistito.
Il potere della follia. Il potere di ciò che chiamiamo Teatro.
Il
potere di una pazzia artefatta e incontrollabile, come un palcoscenico
pieno di personaggi che fingono ma a cui tutti credono.
Perché il
lavoro di Jan Fabre, seppur nella sua incompletezza (e parlare di
incompletezza per uno spettacolo di 4 ore e mezza può sembrare
inverosimile) è un evento che non può lasciare indifferenti.
Uno
di quegli eventi che vanno sotto pelle, che sembrano sfuggire e
diventare indefiniti ma che, in realtà, si insinuano nella mente come
un’idea geniale. Un evento che, a caldo, sembra lasciare l’amaro in
bocca per tutto quello che avrebbe potuto essere, e che tuttavia, più si
raffredda, più continua a perseguitarti. Fino a farti sorgere il dubbio che tutto quello che poteva essere, in realtà, è stato. Uno
di quegli spettacoli che sembrano creati per scardinare i nostri
preconcetti su cosa si debba mostrare e su come si debba farlo, che ci
mette in una posizione scomoda e ci ricorda che il Teatro, quello vero,
non può essere una definizione, una chiusura, una forma definita. Non
può e non deve rassicurare ma, semmai, distruggere ciò che fino a pochi
minuti prima sembrava così normale, sereno, certo, consequenziale. Questo è il compito del Teatro. Insinuarsi nella vita di tutti i giorni non per spiegarla ma per metterla in dubbio.
Jan Fabre, in più di quattro ore, il dubbio lo crea poco a poco. Attraverso
un estenuante girotondo di attese, di rimandi, di corpi che si
mescolano e che ripropongono fino alla nausea la semplicità,
trasformandola in qualcosa di Altro, ci mostrala genialità delle piccole
cose, quello che si nasconde sotto la superficie degli eventi che tutti
reputiamo normali solo perché abituati a vederli sempre.
La
strada passa, come spesso accade, attraverso la
reiterazione,l’estremizzazione, il parossismo, l’esasperazione. Da una
coppia che si schiaffeggia al suono di L'amour est un oiseau rebelle, a
un susseguirsi infinito di morti e risurrezioni che sembrano essere
lunghe e monotone quanto un elenco telefonico, attori e personaggi
diventano lo specchio di noi stessi, intrappolati nella reiterazione
schizofrenica di gesti semplici che, per sentirci vivi, cerchiamo di
caricare dei più disparati significati, ma che restano sempre e solo
quello che sono: la dimostrazione di quanto non riusciamo a toccarci, a
capirci, ad amarci, a spiegarci.
Ecco allora che la normalità
diventa répétition (che sul palcoscenico, si sa, paga sempre), e il
reiterare diventa strumento di analisi che spacca la realtà dei singoli
gesti e da loro nuova forma, portandoli al paradosso.
Fondamentalmente,su
tutto, sempre e solo l’Amore (questa parola così abusata), in tutte le
sue declinazioni. Amore per la libertà, per l’altro, per il sacrificio,
per la morte, perfino per la sofferenza.
Attori-performer
bravissimi, interpreti non del Teatro rassicurante e conosciuto, ma di
quello meno facile che abusa del corpo e della mente in maniera
imprevedibile. Attori che per l’appunto provano questa sofferenza e la
subiscono, marionette di un artista despota che come tutti i
creatori-padroni li costringe a tour de force fisici e psicologici (e
qui, forse, l’occhio di chi fa il mio mestiere riesce anche a
intravedere le tecniche e gli espedienti mediante i quali si è arrivati a
produrre il risultato finale da portare sulla scena).
E il
pubblico non è da meno, preso nel turbine di un evento lungo e a tratti
perfino snervante che, tuttavia, diventa un atto addirittura piacevole,
quasi masturbatorio. Come quel grattarsi consciamente il taglietto sul
mento che,finché si continua a grattarlo, non si rimarginerà.
Non
uno spettacolo facile, non una strada spianata. Anzi, sicuramente
sequenze opinabili sono presenti (soprattutto quella nel pre-finale, in
cui un gioco di morte e risurrezione viene protratto, con lievissime
differenze di volta involta, per quasi mezzora mettendo a dura prova
anche lo spettatore più agguerrito). Alla fine, tuttavia, anche queste
diventano parte di un gioco reale che scava nella quotidianità, nei
desideri, nella ripetizione di meccanismi nei quali rischiamo di venir
stritolati tutti i giorni, diventando nostro malgrado qualcosa che
conosciamo fin troppo bene e che per questo, forse, ci fa così tanta
rabbia dover subire.
Su tutto, la maggiore capacità di
quest’esperienza artistica è sicuramente quella della didascalia (parola
tanto odiata in ambito teatrale): gli attori elencano,declamano,
cantano, gridano per tutto il tempo i titoli, i luoghi, le date di tutte
le opere più innovative, meravigliose, incredibili, pericolose,
epocali,e i loro rispettivi autori.
Niente di più facile, niente di più banale, forse.
Eppure,per
chi fa il mio mestiere (ma io credo per tutti gli amanti dell’Arte) la
répétition (l’eco?) di mostri come Grotowski, Artaud, Pina Bausch,
Wagner, Isadora Duncan (ma anche Shakespeare e Ionesco, Jarry e il
Living Theatre, Beckett e Gordon Craig, il Tavolo Verde, Le cocu
magnifique, Marat-Sade, l’Opera da tre soldi..) per quanto banale,
nozionistica e ‘detta’, spalanca in un momento tutto quello per cui noi
esseri umani combattiamo: la voglia disumana di trasformare il mondo.
E
ci mostra quanto questi mostri passati e moderni abbiano sofferto nel
loro impeto creativo, che aveva come unico scopo il rivelare che la
Realtà, come noi la vediamo, non è che uno strato di polvere da togliere
per liberare una superficie di gran lunga più utile e meravigliosa.
E
allora, mentre ascoltavo la sequela infinita di nomi, ecco che la forza
di secoli e secoli di quel Teatro che salva la vita è ritornata in un
attimo, e mi sono sentito di nuovo, e finalmente, affamato.Come
mi accade quando prendo in mano una qualsiasi delle opere di Shakespeare
emi domando subito dopo ‘come ho fatto a stare più di un mese senza
leggere almeno una pagina di QUESTO? Come??’.
Perché,spesso,
un’opera basta semplicemente nominarla: in un attimo capisci quanto
male sei stato senza di essa, e quanto le devi per essere stato salvato
ancora una volta.
E’ un po’ la sua vendetta per tutto quello che ha rappresentato e che, volente o nolente, rappresenterà.
Daniel De Rossi
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