giovedì 24 ottobre 2013

JAN FABRE – THE POWER OF THEATRICAL MADNESS



In questo titolo c’è già l’essenza stessa dell’esperienza non-esperienza a cui ho assistito.
Il potere della follia. Il potere di ciò che chiamiamo Teatro.
Il potere di una pazzia artefatta e incontrollabile, come un palcoscenico pieno di personaggi che fingono ma a cui tutti credono.
Perché il lavoro di Jan Fabre, seppur nella sua incompletezza (e parlare di incompletezza per uno spettacolo di 4 ore e mezza può sembrare inverosimile) è un evento che non può lasciare indifferenti.
Uno di quegli eventi che vanno sotto pelle, che sembrano sfuggire e diventare indefiniti ma che, in realtà, si insinuano nella mente come un’idea geniale. Un evento che, a caldo, sembra lasciare l’amaro in bocca per tutto quello che avrebbe potuto essere, e che tuttavia, più si raffredda, più continua a perseguitarti. Fino a farti sorgere il dubbio che tutto quello che poteva essere, in realtà, è stato. Uno di quegli spettacoli che sembrano creati per scardinare i nostri preconcetti su cosa si debba mostrare e su come si debba farlo, che ci mette in una posizione scomoda e ci ricorda che il Teatro, quello vero, non può essere una definizione, una chiusura, una forma definita. Non può e non deve rassicurare ma, semmai, distruggere ciò che fino a pochi minuti prima sembrava così normale, sereno, certo, consequenziale. Questo è il compito del Teatro. Insinuarsi nella vita di tutti i giorni non per spiegarla ma per metterla in dubbio. 


Jan Fabre, in più di quattro ore, il dubbio lo crea poco a poco. Attraverso un estenuante girotondo di attese, di rimandi, di corpi che si mescolano e che ripropongono fino alla nausea la semplicità, trasformandola in qualcosa di Altro, ci mostrala genialità delle piccole cose, quello che si nasconde sotto la superficie degli eventi che tutti reputiamo normali solo perché abituati a vederli sempre.
La strada passa, come spesso accade, attraverso la reiterazione,l’estremizzazione, il parossismo, l’esasperazione. Da una coppia che si schiaffeggia al suono di L'amour est un oiseau rebelle, a un susseguirsi infinito di morti e risurrezioni che sembrano essere lunghe e monotone quanto un elenco telefonico, attori e personaggi diventano lo specchio di noi stessi, intrappolati nella reiterazione schizofrenica di gesti semplici che, per sentirci vivi, cerchiamo di caricare dei più disparati significati, ma che restano sempre e solo quello che sono: la dimostrazione di quanto non riusciamo a toccarci, a capirci, ad amarci, a spiegarci.
Ecco allora che la normalità diventa répétition (che sul palcoscenico, si sa, paga sempre), e il reiterare diventa strumento di analisi che spacca la realtà dei singoli gesti e da loro nuova forma, portandoli al paradosso.
Fondamentalmente,su tutto, sempre e solo l’Amore (questa parola così abusata), in tutte le sue declinazioni. Amore per la libertà, per l’altro, per il sacrificio, per la morte, perfino per la sofferenza.

Attori-performer bravissimi, interpreti non del Teatro rassicurante e conosciuto, ma di quello meno facile che abusa del corpo e della mente in maniera imprevedibile. Attori che per l’appunto provano questa sofferenza e la subiscono, marionette di un artista despota che come tutti i creatori-padroni li costringe a tour de force fisici e psicologici (e qui, forse, l’occhio di chi fa il mio mestiere riesce anche a intravedere le tecniche e gli espedienti mediante i quali si è arrivati a produrre il risultato finale da portare sulla scena).
E il pubblico non è da meno, preso nel turbine di un evento lungo e a tratti perfino snervante che, tuttavia, diventa un atto addirittura piacevole, quasi masturbatorio. Come quel grattarsi consciamente il taglietto sul mento che,finché si continua a grattarlo, non si rimarginerà.
Non uno spettacolo facile, non una strada spianata. Anzi, sicuramente sequenze opinabili sono presenti (soprattutto quella nel pre-finale, in cui un gioco di morte e risurrezione viene protratto, con lievissime differenze di volta involta, per quasi mezzora mettendo a dura prova anche lo spettatore più agguerrito). Alla fine, tuttavia, anche queste diventano parte di un gioco reale che scava nella quotidianità, nei desideri, nella ripetizione di meccanismi nei quali rischiamo di venir stritolati tutti i giorni, diventando nostro malgrado qualcosa che conosciamo fin troppo bene e che per questo, forse, ci fa così tanta rabbia dover subire.


Su tutto, la maggiore capacità di quest’esperienza artistica è sicuramente quella della didascalia (parola tanto odiata in ambito teatrale): gli attori elencano,declamano, cantano, gridano per tutto il tempo i titoli, i luoghi, le date di tutte le opere più innovative, meravigliose, incredibili, pericolose, epocali,e i loro rispettivi autori.
Niente di più facile, niente di più banale, forse.
Eppure,per chi fa il mio mestiere (ma io credo per tutti gli amanti dell’Arte) la répétition (l’eco?) di mostri come Grotowski, Artaud, Pina Bausch, Wagner, Isadora Duncan (ma anche Shakespeare e Ionesco, Jarry e il Living Theatre, Beckett e Gordon Craig, il Tavolo Verde, Le cocu magnifique, Marat-Sade, l’Opera da tre soldi..) per quanto banale, nozionistica e ‘detta’, spalanca in un momento tutto quello per cui noi esseri umani combattiamo: la voglia disumana di trasformare il mondo.
E ci mostra quanto questi mostri passati e moderni abbiano sofferto nel loro impeto creativo, che aveva come unico scopo il rivelare che la Realtà, come noi la vediamo, non è che uno strato di polvere da togliere per liberare una superficie di gran lunga più utile e meravigliosa.
E allora, mentre ascoltavo la sequela infinita di nomi, ecco che la forza di secoli e secoli di quel Teatro che salva la vita è ritornata in un attimo, e mi sono sentito di nuovo, e finalmente, affamato.Come mi accade quando prendo in mano una qualsiasi delle opere di Shakespeare emi domando subito dopo ‘come ho fatto a stare più di un mese senza leggere almeno una pagina di QUESTO? Come??’.
Perché,spesso, un’opera basta semplicemente nominarla: in un attimo capisci quanto male sei stato senza di essa, e quanto le devi per essere stato salvato ancora una volta.
E’ un po’ la sua vendetta per tutto quello che ha rappresentato e che, volente o nolente, rappresenterà.

Daniel De Rossi

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