martedì 29 ottobre 2013

Della prima volta al Teatro Kopó : il calapranzi e l'opportunità di sbagliare

Il 23 settembre 2013 a Roma, in Via Vestricio Spurinna 47/49 (zona tuscolana), è stato inaugurato un nuovo spazio teatrale, il Teatro Kopó. Lo abbiamo scoperto tardivamente, un mese dopo, mentre si preparava ad aprire le porte al pubblico per il secondo spettacolo della stagione, Il Calapranzi di H.Pinter. Non potevamo che accorrere, perché un nuovo teatro è sempre un evento lieto, fino a quando non scopri che più che un teatro è un nuovo "affittacamere". È la realtà odierna, almeno un nuovo piccolo teatro off ogni anno, l'entusiasmo per qualcosa che sembra essere un piccolo foro di luce sul grande telo scuro che circonda le nostre vite, poi la solita delusione nello scoprire che tutti - ma proprio tutti - possono pagare una sala e offrire un qualcosa di vagamente teatrale. Ma all'inizio l'entusiasmo della nuova scoperta è forte, così ancora una volta siamo partiti con grande slancio, con grandi aspettative, col doppio intento di vedere lo spettacolo e di respirare questo nuovo spazio. Il primo impatto trasmette l'idea di un qualcosa di vivo, fresco, dinamico, moderno nel modo di comunicare e accogliere. Così quel piccolo foro che ha lasciato filtrare un lumicino di luce ha attraversato il nostro sguardo, abbiamo provato a saggiare l'intensità della sua luce sulla nostra pelle, ci è parso caldo, convincente, non illusorio, un piccolo bagliore quasi impercettibile ma deciso. Quel luccichìo è diventato a tratti abbagliante mentre parlavamo con Francesca Epifani, la nemmeno trentenne direttrice artistica: il piccolo Teatro Kopó è la sua più grande scommessa. Ci ha parlato della politica della sua direzione, degli obiettivi, del magma caotico che caratterizza il panorama teatrale odierno, degli "affittacamere", dell'opportunità di sbagliare. Ci trova d'accordo, su molte cose, facciamo sì con la testa e intanto un sorriso ci si stampa dentro, perché quello che tante volte abbiamo pensato e di cui ci andiamo convincendo giorno dopo giorno, qualcuno ha avuto il coraggio di metterlo in pratica. È presto per cantar vittoria, è presto per dire partiamo dal Kopó, ne abbiamo visti molti nascere e non avere la determinazione di portare avanti quello che, forse solo a scopi pubblicitari, millantavano inizialmente. È pur vero però che spesso abbiamo a che fare con direttori se non vecchi quantomeno andanti, già in una parabola discente - l'apertura di un teatro è un tentativo di aggrapparsi all'apice - le cui frenetiche spinte ideali sono soltanto dei meri ricordi di gioventù. In questo caso ci troviamo di fronte all'idealismo giovanile nel suo pieno fervore, anche ad una certa ottusità che sempre contraddistingue gli slanci giovanili. Noi stessi lo siamo e dunque rilanciamo: siate ottusi! Indietreggiare non serve più, forse il fondo è toccato, forse no, se è stato toccato allora si potrà finalmente risalire. Il coraggio di tentare, l'opportunità di sbagliare.

Si fa sala, si entra, ci accomodiamo, il messaggio di sala è delizioso e simpatico, pensiamo al verbo "to play", entrano gli attori. Giovani anche loro, è la loro opportunità di sbagliare. La struttura scenica è semplice: due letti ai lati, finte mattonelle alle pareti, il calapranzi al centro. Forse non del tutto claustrofobica e asfissiante come ti aspetteresti, visto che le mattonelle donano un lieve tocco di vivacità alle pareti e il palco rialzato per chi è in prima fila restituisce un effetto quantomeno di un primo piano, anziché di un seminterrato. Tuttavia la piccola sala contribuisce a comprimere l'atmosfera e, specialmente nei silenzi, si avverte una tremenda vicinanza al clima dell'opera e alla condizione dei due personaggi. A tratti si ha l'impressione che qualcosa debba esplodere da un momento all'altro, la tensione di Ben e Gus riesce a filtrare in sala e si trattiene il fiato. Il primo improvviso blu che dal calapranzi si allarga nel buio è un lacerante segnale d'allarme.
Piero Grant (Ben) e Angelo Sateriale (Gus) ci sono piaciuti, anche se emergono le loro differenti caratteristiche: Piero Grant più a suo agio nei panni pinteriani, Angelo Sateriale rinchiuso forse in un recinto (registico) troppo stretto che ha imbrigliato la sua libertà espressiva. Sebbene le differenze tra i due attori rispecchino quelle dei personaggi, appare evidente che non sempre riescono a toccarsi, incontrarsi, forse anche perché concentrati a percorrere i binari della regia di Alessandro Gorgoni che li costringe a percorsi obbligati e movimenti ripetitivi (seppur di qualità diversa), quasi fossero due automi e non due esseri umani. Un'idea che sacrifica il naturalismo per spingere verso un tentativo di concettualizzare il contenuto dell'opera di Pinter, la quale diviene così più astratta e meno veritiera, probabilmente anche meno penetrante. Dopotutto però non nuoce alla salute come altre cose che vediamo, è una possibilità, un'indagine, una piccola variazione su un testo percorso da tanti e che naturalmente si presta ad essere riletto. Va bene dunque tentare, esplorare, confrontarsi con testi di difficile rappresentazione, perché va bene anche e sopratutto sbagliare, come ci dice saggiamente Francesca Epifani. Potrebbe già diventare il piccolo motto della stagione teatrale appena iniziata, un cambio sostanziale di prospettiva. Oggi che il perfezionismo di plastica ha così invaso le nostre vite, qualcuno ci ricorda che sbagliare è soprattutto un'opportunità da concedere. Ben venga dunque il Teatro Kopó e che sia più di un semplice foro di luce.
A.A.

LINK UTILI


IL CALAPRANZI
di H. Pinter
Regia Alessandro Gorgoni
con Angelo Sateriale e Piero Grant
Ass.Regia Concetta Bruni
Musiche Flavia Ripa
Scenografie Giuseppe Grant, Francesco Pica
Organizzazione Luna Abbondandolo
 

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sabato 26 ottobre 2013

Eventi Gratuiti: Enoch Arden di R.Strauss al Teatro Elsa Morante

Sabato 26 ottobre - ore 21 

TEATRO ELSA MORANTE 

 (Piazzale Elsa Morante, Roma - Tel. 06.50512953)
**INGRESSO GRATUITO**
ENOCH ARDEN
NAUFRAGO PER AMORE
Melologo per voce recitante e pianoforte su un poema narrativo di A. Tennyson. 
 di R. Strauss 
VANESSA GRAVINA - voce recitante 
TIZIANA COSENTINO - pianoforte



Enoch Arden resta ancora oggi il più popolare dei Melologhi nella storia della musica, per la sua densità e il pathos che promana. L'opera, ricca di intelligenza drammatica e persino cinematografica ante litteram, nasce da un poemetto di Alfred Tennyson, Poeta Laureato dell’età vittoriana: pubblicato nel 1864, vendette ben 17000 copie nel primo giorno di pubblicazione, divenendo una popolare storia di mare, d’avventura, d'amore, di travagli interiori.
Richard Strauss, avendo captato lo straordinario potere evocativo del testo, nel 1897 vi creò accanto una partitura pianistica trasformandolo con grande successo in un melologo: la musica dilata lo spazio fra le parole della voce recitante con accordi enigmatici e sospesi; ondate furiose di biscrome sommergono l’ascoltatore fin dal preludio proiettandolo immediatamente di fronte all’oceano, mentre un possente tremolo accompagna i pensieri dei protagonisti.
La storia racconta l'amore della bella Annie Lee per il pescatore Enoch Arden e per il suo amico Philip Ray. Sin dall’infanzia i due ragazzi si contendono le attenzioni della fanciulla che, giunta in età da marito, sceglie Enoch e lo sposa. All’inizio tutto sembra andare per il verso giusto, finché il pescatore si imbarca su una nave da carico per cercare fortuna in paesi lontani, e di lui per molti anni non si hanno più notizie. Solo l’aiuto di Philip salva Annie e i suoi figli dall’indigenza, e dopo qualche tempo, convinti entrambi della tragica fine di Enoch, i due decidono di sposarsi. Ma Enoch è ancora vivo: scagliato da una naufragio su un isola solitaria dei Mari del Sud, riesce a tornare in patria, dove però, ormai nessuno lo riconosce. Venendo a sapere della nuova vita di sua moglie con Philip, decide di rimanere nell’ombra per non turbare la pace della nuova famiglia. Vive per un anno ospite di una locanda del porto e in punto di morte rivela all’ostessa la sua identità, pregandola di informare soltanto dopo la sua morte Annie, Philip e i suoi figli che Enoch Arden era finalmente tornato a casa. 

Organizzazione e realizzazione a cura dell'associazione "Musica è"

ufficio stampa 
Marzia Spanu 
+39 06 77591075 
+39 335 6947068 
spanumar@gmail.com 

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venerdì 25 ottobre 2013

A Teatro nella Tuscia. Vaporidis in scena a Viterbo.

Anche se respiriamo prevalentemente aria (e smog) romana, accogliamo con piacere l'invito a segnalare questo evento a Viterbo. In fondo da quelle placide cittadine noi partimmo, prima ancora d'essere romani siamo stati viterbesi. Perciò non possiamo che accogliere e dare notizia, consci del fatto che ogni provincia ha bisogno di attività teatrali e culturali, soprattutto "gli artisti militanti" hanno bisogno di educare il pubblico all'arte, un pubblico che nella provincia di Viterbo è ancora troppo piccolo, che troppo ancora si avvicina ad un museo, una mostra o uno spettacolo teatrale di sottecchi e con un certo atteggiamento difensivo. Avanti, si accomodino, non mordiamo. Buon Teatro.

Su segnalazione di Cultuscia.com:

Lo Sfascio’, opera teatrale scritta da Gianni Clementi, che firma una regia a quattro mani con Saverio Di Biagio. E’ la prima volta in teatro per la star del cinema italiano Nicolas Vaporidis, in scena con Augusto Fornari, Alessio di Clemente e Riccardo de Filippis. Insieme a loro, unica donna, Jennifer Mischiati. 

Domenica 27 ottobre ‘Lo Sfascio’ debutta all'Auditorium di Santa Maria in Gradi alle ore 21 

Uno spettacolo duro e schietto, con un linguaggio forte. “Lo Sfascio è un titolo non casuale – spiega l’autore e regista Gianni Clementi - avendo in sé la doppia valenza di luogo di rottamazione fisica ma soprattutto morale. Un po’ quello che è successo nel nostro meraviglioso Paese. Il successo facile, il degrado morale, la corruzione, la volgarità, il ritorno al cliché della donna oggetto. Questi sono stati i modelli di comportamento che negli anni hanno mutato geneticamente i nostri cervelli. Fortunatamente ci sarà sempre il lamento di un bambino appena nato a donarci una speranza”. 

La trama: Siamo negli anni ’70, in piena strategia terrorista. Fosco, 40enne titolare di uno sfasciacarrozze (lo sfascio) e con precedenti penali alle spalle, è un amante della bella vita e non perde occasione per tradire sua moglie Katia, in avventure occasionali. E’ anche un giocatore incallito di carte e, insieme all’amico poliziotto Ugo, assiduo frequentatore di bische clandestine. Manlio, 25enne fratello di Fosco e afflitto da un serio handicap mentale, lavora allo sfascio ed è immerso nel suo mondo, composto disordinatamente da immagini di calendari sexy, gomme da masticare e giochi infantili. Frequentatore abituale dello sfascio è Luciano, detto Diecilire, un piccolo truffatore costantemente in cerca di soldi. Una grave perdita al gioco vede vittima Ugo il poliziotto, il quale decide di compiere una rapina e obbliga Fosco a rendersi suo complice. Anche Diecilire partecipa alla rapina, in qualità di autista. La rapina a una gioielleria si conclude con successo, ma come spesso accade una fortuita coincidenza spariglia le carte in tavola.

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Invito ad "Essere Emanuele Miriati". Teatro Tor Bella Monaca



Parlare di arte è ingombrante, parlare di teatro è obsoleto, esprimere opinioni o giudizi è poco utile alla fine e cosa ci rimane? La possibilità di parlare della vita. La vita nuda e cruda, schietta, spontanea e anche parecchio volgare, cruenta. Questa visione ci viene proposta da Riccardo Goretti, giovane attore che si sperimenta da anni sulla scena italiana, cominciando con la collaborazione nella compagnia Gli Omini, ormai terminata e subito riaffermandosi con idee molto ben riuscite. Il suo tentativo è quello di rivelare-documentare vita, esseri umani, a partire da quelli più vicini a sé, operazione già messa in atto con il precedente spettacolo “Annunziata detta Nancy” . Una sorta di neorealismo non programmato, o forse sì, ma sicuramente messo a disposizione senza troppi ricami. E’ troppo forte infatti la necessità di immedesimarsi in qualcun altro, per capire certi aspetti della realtà che spesso sfuggono, perché siamo disattenti, egoisti, indifferenti, superiori, incapaci…è utile indossare un’altra pelle per un po’, magari per vedere quanto sotto di essa non siano così diversi i battiti di un medesimo organo pulsante; è utile per capire quanto certi impulsi nervosi e certe spinte viscerali non siano poi così assurde rispetto alle nostre. Che reazioni chimiche ci sono in un altro corpo? Chi siamo noi? Chi è questo Emanuele Miriati? E cosa diventiamo con lui? Sicuramente tutti siamo Emanuele Miriati, perché lui assomiglia un po’ alla purezza, all’infanzia, all’incoscienza che ognuno di noi in qualche modo ha percepito nella propria vita. E. M. è così trasparente che riflette limpidamente le sfumature e i colori nei quali si imbatte. Cerca di incontrare davvero chi ha davanti e spesso è così privo di filtri che è imbarazzante, la sua visione delle cose è comica da morire e anche tragica; lui nella pozza di fango non va a specchiarsi, ci si tuffa dentro fino al collo: e pensare che c’è anche chi la scansa. C’è un certo divertimento, anche parecchio esagerato spesso, nel suo volersi tuffare in ogni polla come una piccola peste. Ce ne racconta e ce ne fa vedere di tutti i colori, ci apre la sua vita, senza giudizi, senza bisogno di maschere o filtri per benpensanti, idealisti e sognatori. La sua vita è quella, imperfetta, incasinata, un po’ puttana e alla fine che ci deve fare? Nonostante i viziacci, le sfortune e una società che non permette certe espressioni e certi comportamenti, lui vive e vive intensamente e dà voce a quegli aspetti che di solito a tutti noi fanno tappare occhi, orecchi e bocca. Perché alla fine poi, si sa che la fine di ogni cristiano è la stessa, che ci piaccia o no e quella tomba in scena, ammessa come unica scenografia, ce lo ricorda in ogni istante che passa.

Racconto, confessione esilarante di un universale Emanuele Miriati; la storia di un uomo che ha dell’eccezionale, dell’incredibile pur essendo semplice e a volte neanche troppo bella da rivelare, che ci ricorda il Cioni Mario del Benigni in Berlinguer ti voglio bene.

Come non concludere con un motto del tutto toscano, come si presenta questo spettacolo, (che poi si intreccia anche con altre storie, altri personaggi amici di E.M. che di toscano hanno poco), omaggiando il grande Carlo Monni, recentemente scomparso:


Eppure, la natura ci insegna
sia su' i monti, sia a valle
che si po' nascer bruchi
pe' diventa' farfalle.

Noi semo quella razza
che l'è tra le più strane
che bruchi semo nati
e bruchi si rimane.

Quella razza semo noi
l'è inutile far finta:
c'ha trombato la miseria
e semo rimasti incinta.


Vi invitiamo quindi calorosamente a vedere ESSERE EMANUELE MIRIATI
Valentina Nesi

di e con Riccardo Goretti
collaborazione ai testi e alla scena Emanuele Miriati
Collaborazione tecnica Duccio Burberi
Realizzazione tomba Francesco Bresci
Foto Silvia Bavetta

Nata Teatro e Armunia

in collaborazione con Arti Vive Habitat
e con Accademia Amiata Mutamenti Factory
e con Centro Culturale La Gualchiera – Montemurlo
distribuzione Fonderia CultArt

DOMENICA 27 OTTOBRE 2013 al TEATRO TOR BELLA MONACA

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giovedì 24 ottobre 2013

JAN FABRE – THE POWER OF THEATRICAL MADNESS



In questo titolo c’è già l’essenza stessa dell’esperienza non-esperienza a cui ho assistito.
Il potere della follia. Il potere di ciò che chiamiamo Teatro.
Il potere di una pazzia artefatta e incontrollabile, come un palcoscenico pieno di personaggi che fingono ma a cui tutti credono.
Perché il lavoro di Jan Fabre, seppur nella sua incompletezza (e parlare di incompletezza per uno spettacolo di 4 ore e mezza può sembrare inverosimile) è un evento che non può lasciare indifferenti.
Uno di quegli eventi che vanno sotto pelle, che sembrano sfuggire e diventare indefiniti ma che, in realtà, si insinuano nella mente come un’idea geniale. Un evento che, a caldo, sembra lasciare l’amaro in bocca per tutto quello che avrebbe potuto essere, e che tuttavia, più si raffredda, più continua a perseguitarti. Fino a farti sorgere il dubbio che tutto quello che poteva essere, in realtà, è stato. Uno di quegli spettacoli che sembrano creati per scardinare i nostri preconcetti su cosa si debba mostrare e su come si debba farlo, che ci mette in una posizione scomoda e ci ricorda che il Teatro, quello vero, non può essere una definizione, una chiusura, una forma definita. Non può e non deve rassicurare ma, semmai, distruggere ciò che fino a pochi minuti prima sembrava così normale, sereno, certo, consequenziale. Questo è il compito del Teatro. Insinuarsi nella vita di tutti i giorni non per spiegarla ma per metterla in dubbio. 


Jan Fabre, in più di quattro ore, il dubbio lo crea poco a poco. Attraverso un estenuante girotondo di attese, di rimandi, di corpi che si mescolano e che ripropongono fino alla nausea la semplicità, trasformandola in qualcosa di Altro, ci mostrala genialità delle piccole cose, quello che si nasconde sotto la superficie degli eventi che tutti reputiamo normali solo perché abituati a vederli sempre.
La strada passa, come spesso accade, attraverso la reiterazione,l’estremizzazione, il parossismo, l’esasperazione. Da una coppia che si schiaffeggia al suono di L'amour est un oiseau rebelle, a un susseguirsi infinito di morti e risurrezioni che sembrano essere lunghe e monotone quanto un elenco telefonico, attori e personaggi diventano lo specchio di noi stessi, intrappolati nella reiterazione schizofrenica di gesti semplici che, per sentirci vivi, cerchiamo di caricare dei più disparati significati, ma che restano sempre e solo quello che sono: la dimostrazione di quanto non riusciamo a toccarci, a capirci, ad amarci, a spiegarci.
Ecco allora che la normalità diventa répétition (che sul palcoscenico, si sa, paga sempre), e il reiterare diventa strumento di analisi che spacca la realtà dei singoli gesti e da loro nuova forma, portandoli al paradosso.
Fondamentalmente,su tutto, sempre e solo l’Amore (questa parola così abusata), in tutte le sue declinazioni. Amore per la libertà, per l’altro, per il sacrificio, per la morte, perfino per la sofferenza.

Attori-performer bravissimi, interpreti non del Teatro rassicurante e conosciuto, ma di quello meno facile che abusa del corpo e della mente in maniera imprevedibile. Attori che per l’appunto provano questa sofferenza e la subiscono, marionette di un artista despota che come tutti i creatori-padroni li costringe a tour de force fisici e psicologici (e qui, forse, l’occhio di chi fa il mio mestiere riesce anche a intravedere le tecniche e gli espedienti mediante i quali si è arrivati a produrre il risultato finale da portare sulla scena).
E il pubblico non è da meno, preso nel turbine di un evento lungo e a tratti perfino snervante che, tuttavia, diventa un atto addirittura piacevole, quasi masturbatorio. Come quel grattarsi consciamente il taglietto sul mento che,finché si continua a grattarlo, non si rimarginerà.
Non uno spettacolo facile, non una strada spianata. Anzi, sicuramente sequenze opinabili sono presenti (soprattutto quella nel pre-finale, in cui un gioco di morte e risurrezione viene protratto, con lievissime differenze di volta involta, per quasi mezzora mettendo a dura prova anche lo spettatore più agguerrito). Alla fine, tuttavia, anche queste diventano parte di un gioco reale che scava nella quotidianità, nei desideri, nella ripetizione di meccanismi nei quali rischiamo di venir stritolati tutti i giorni, diventando nostro malgrado qualcosa che conosciamo fin troppo bene e che per questo, forse, ci fa così tanta rabbia dover subire.


Su tutto, la maggiore capacità di quest’esperienza artistica è sicuramente quella della didascalia (parola tanto odiata in ambito teatrale): gli attori elencano,declamano, cantano, gridano per tutto il tempo i titoli, i luoghi, le date di tutte le opere più innovative, meravigliose, incredibili, pericolose, epocali,e i loro rispettivi autori.
Niente di più facile, niente di più banale, forse.
Eppure,per chi fa il mio mestiere (ma io credo per tutti gli amanti dell’Arte) la répétition (l’eco?) di mostri come Grotowski, Artaud, Pina Bausch, Wagner, Isadora Duncan (ma anche Shakespeare e Ionesco, Jarry e il Living Theatre, Beckett e Gordon Craig, il Tavolo Verde, Le cocu magnifique, Marat-Sade, l’Opera da tre soldi..) per quanto banale, nozionistica e ‘detta’, spalanca in un momento tutto quello per cui noi esseri umani combattiamo: la voglia disumana di trasformare il mondo.
E ci mostra quanto questi mostri passati e moderni abbiano sofferto nel loro impeto creativo, che aveva come unico scopo il rivelare che la Realtà, come noi la vediamo, non è che uno strato di polvere da togliere per liberare una superficie di gran lunga più utile e meravigliosa.
E allora, mentre ascoltavo la sequela infinita di nomi, ecco che la forza di secoli e secoli di quel Teatro che salva la vita è ritornata in un attimo, e mi sono sentito di nuovo, e finalmente, affamato.Come mi accade quando prendo in mano una qualsiasi delle opere di Shakespeare emi domando subito dopo ‘come ho fatto a stare più di un mese senza leggere almeno una pagina di QUESTO? Come??’.
Perché,spesso, un’opera basta semplicemente nominarla: in un attimo capisci quanto male sei stato senza di essa, e quanto le devi per essere stato salvato ancora una volta.
E’ un po’ la sua vendetta per tutto quello che ha rappresentato e che, volente o nolente, rappresenterà.

Daniel De Rossi
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giovedì 17 ottobre 2013

Le notti bianche al Teatro Le Sedie di Roma (promozione €5)




L'associazione Il Rinoceronte
presenta

LE NOTTI BIANCHE 

di Fedor Dostoevskij
adattamento e regia di John Blaz
con Alessandro Giova
Gioia Montanari 


Adattamento del celebre romanzo breve di Dostoevskij. Un sognatore, una giovane innamorata, un inquilino che aleggia nel ricordo e nell’anima di lei. Le possibilità di una vita pienamente vissuta spente crudelmente dal destino, l’impossibilità di essere felici se non in sogno. La forza della parola, la memoria dell’amore come unica possibilità di scampo.

Ingresso: €10 intero; €8 ridotto; promozione Atrapalo €5
Tessera associativa: € 2
info e prenotazioni: info@teatrolesedie.it - 0689011850 - 3201949821


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sabato 12 ottobre 2013

Il passaggio di Antonio Diana, Teatro Millelire. Recensione: il grido di dolore del teatro.

Il teatro è morto. Il teatro è povero. Il teatro deve rinascere, deve spogliarsi, deve andare incontro alla vita reale. Magari! Stiamo aspettando un digestivo, un rimedio alla dissenteria collettiva, un purgante sociale. Ad oggi siamo solo partecipi dell'ingolfamento e cerchiamo soltanto di ripararci con ombrelli di stoffa troppo leggera dai rigurgiti e dalle secchiate di sterco che ci arrivano addosso un po’ tutti i giorni. Che puzzo. Chi è stato? Chi la sente, ne è parente. Fuori i nomi. Non c'è niente di male ad avere disturbi intestinali; chissà perché tutta questa paura di sentirsi male. Basta una cura, un po’ di riposo e degenza. Ma fra i parenti di casa mia non ci sono solo disturbi; nel mio Paese c'è un tumore cronico, siamo tutti malati terminali. E quindi aspettiamo con paura che arrivi la morte. Ma arrivasse! Così almeno potremmo rinascere. 
C'è qualcuno che ci tiene in vita perché ha bisogno di noi. Ma se volessimo morire? Che amore disinteressato che hanno per noi coloro che ci governano, con tutte le scariche di rifiuti organici che ci riversano addosso neanche ci vogliono far morire; ci tengono a sé in questa stitichezza nazionale, in questo tumore intestinale per sentirci tutti più vicini: mal comune mezzo gaudio, una risata e due chemio. Un po’ di cabaret , spettacoli e divertimenti di basso costo, perché con tutti i soldi per le medicine, non è possibile ingaggiare quelli davvero bravi che poi appesantiscono le menti: quando si è malati si ha bisogno di avere la testa leggera. L'importante è guarire con le medicine chimiche, tenere in vita questi corpi dello stato, che se si svuotano di identità e di valore è pure meglio, almeno poi si riempiono come meglio si crede. Quando avverrà finalmente questo trapasso, questo passaggio? Giriamo tutti intorno a questo argomento, perché ci tocca, ci brucia, ci trapassa e ciascuno cerca di esprimere a suo modo com’è vivere, o meglio sopravvivere in questo buio medioevo. Il tempo della rinascita sembra ancora molto lontano e si sperimenta, si cerca di accendere un lume, a volte si distrugge in modo poco mirato o si rischia di ricreare con la stessa pesantezza, lo stesso ipocondriaco caos che si cercava di evitare. 

La messa in scena del testo di Antonio Diana è sembrata una sperimentazione molto coraggiosa, molto sentita, molto studiata. Anche troppo forse. Il testo ci lancia in una spirale vorticosa da un presente di guerra e resistenza a un passato di ricchezza economica e sociale, culturale, artistica, in cui i teatri erano pieni, gli attori recitavano con gloria e soddisfazione, lavoravano! Quello che rimane adesso sono solo macerie, ricordi, echi che si annidano negli angoli polverosi dei camerini, dei fuori scena, fra gli abiti invecchiati e sgualciti, un tempo scintillanti e vivi; questi attori oggi in fin di vita sembrano non trovare più un linguaggio per raccontare….per parlare…per dire…..cosa? E come? Tra una quinta e l’altra appaiono le ombre di una Medea, uno Iago, un Don Giovanni e ci parlano emozionandoci ancora, ma non basta: ci serve altro, ci serve un racconto reale, una storia vera, che si intreccia con un’altra vita, quella creata dall’uomo-attore che adesso va in scena. E noi vogliamo sentire chi è costui, che cosa fa e anche questo ci smuove, ci appassiona. Si succedono scene, prove e improvvisazioni di questi quattro attori che stanno per morire e rappresentano tutti, la loro categoria: il teatro. Quello che accade a loro accade a noi, stiamo per morire e non sappiamo dove andare, non sappiamo neanche bene di chi è la colpa, se c’è una colpa: semplicemente arranchiamo! 
Le idee di questo testo sono forti, sono laceranti, a volte difficili da ascoltare e metabolizzare, ma il linguaggio-parola arriva; il modo in cui tutto ciò viene articolato, tramite il montaggio delle scene e la scelta del cercare di mettere insieme più generi, risulta a volte confusionario. I temi diventano improvvisamente troppi, le scene troppo distaccate l’una dall’altra, per cui lo spettatore si trova disorientato di fronte alla volontà, se pur molto apprezzata, di rendere vicine dimensioni lontane nello spazio-tempo. Gli attori sono riusciti a ricreare bene momenti di grande intensità, soprattutto nei monologhi, ma sembravano succubi di una volontà più grande di loro che appariva esageratamente forzata nel rendere tutto troppo chiaro, troppo netto, troppo spiegato. La scelta del genere musicale con cui si cercava di amalgamare ogni scena, sebbene abbia esaltato le notevoli qualità canore del cast, è risultata anch’essa decisamente opinabile; soprattutto si è creato un contrasto tra la necessità di meno parole, meno testo, dello spogliare e rendere scarno il teatro cercando un nuovo attore/nuovo uomo, con questa scelta di creare ancora, troppo, di dire troppo, di aggiungere qualcosa che non c’è da aggiungere. Non si è vista una fine, perché non c’è una fine a questo dilemma; c’è una porta aperta dalla quale questi quattro attori denudati del loro sudario, dal quale si erano strappati sin dall’inizio, escono e passano, ma passano senza conoscere una direzione. Rimane il disorientamento e noi ci chiediamo: cos’è che è ancora rimasto da togliere?

Valentina Nesi 



IL PASSAGGIO, L'ECO DI TEATRO OCCUPATO
scritto e diretto da Antonio Diana
con Antonio Diana, Mariano Riccio, Mario Piana, Arianna Luzi
musiche di Antonio Diana

dall'8 al 13 ottobre presso

TEATRO MILLELIRE
via Ruggero De Lauria 22 - Roma
Biglietti: intero 12€ - ridotto 10€
www.millelire.org – 0639751063 – 3332911132

 
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Fucked di Penelope Skinner, T.Stanze Segrete. Recensione: un viaggio a ritroso da prostituta a vergine.

Ad un certo punto c'è apparsa l'immagine di una matrioska e lo abbiamo messo in relazione alla nostra vita. Come se da quel primo seme non facessimo che aggiungere strati e rivestirci di una corazza più resistente, frutto dell'esperienza e degli errori passati. Sono abbagli, perché la nuova pelle assomiglia sempre e irrimediabilmente a quella precedente. È un po' così lo spettacolo dal titolo tanto provocatorio quanto intelligente Fucked, della promettente autrice britannica Penelope Skinner, un viaggio a ritroso di una giovane donna da prostituta a vergine, ripercorrendo i tanti "giorni dopo" della sua vita.
Narrazione tutt'altro che cruda o cupa, come inizialmente il titolo potrebbe portare a credere, ma un tragicomico sfogliare autoironico fatto di momenti eccitanti. Un lento scrostarsi disincantante, partendo da un piccolo prologo ambientato nell'oggi quando, una donna senza nome, Effe, ritrova su vecchio quaderno una fiaba romantica da lei scritta a dodici anni, preludio a quell'amore da favola a lungo ricercato nella vita. È il motivetto che apre le danze e fa scorrere i giorni all'indietro, spalancando le porte del primo flashback, quello di una triste e drogata ballerina di lap-dance in un locale vuoto la sera di Capodanno. È lo stato più superficiale della matrioska, il più recente di una serie di errori di valutazione che hanno costellato la vita di Effe, nella sfrenata ricerca dell'uomo ideale. E poi via, un passo e un anno indietro, a Leo, l'uomo dei sogni; e ancora due anni prima a Mike, l'hippie che rompe il voto di castità fatto da Effe col suo pene infetto; e poi Ian e l'incontro con un uomo sconosciuto, raccontato attraverso un esilarante sketch da film muto. Indietro, fino al punto di partenza, mentre uno schermo scandisce il tempo e proietta le parole che riassumono gli appellattivi con i quali ogni giorno facilmente etichettiamo le donne come Effe: "prostituta", "promessa sposa", "vittima", "troia", "oggetto", "vergine". Questi son letti non solo nella loro ottica più comune e convenzionale, ma anche nei secondi o terzi significati, restituendo al percorso di Effe un valore più profondo, una ricerca di senso finora sfuggita verso una più ampia verginità dell'essere, prima ancora che sessuale.
Una scrittura agile e acuta, spiritosa, la quale lascia lungo il suo percorso una serie di piccole risatine del pubblico che immediatamente rispolvera le sue avventure sessuali. Le sue osservazioni sugli uomini e la sessualità, risuonano in maniera tremendamente vera ed è facile che sia donne che uomini, sappiano rivedersi nelle avventure di Effe.

A fare in modo che Fucked (per la prima volta in Italia) sia uno spettacolo da mettere senz'altro in agenda, c'è la freschezza della performance di Francesca Romana Degl'Innocenti, attrice divisa tra Spagna e Italia, la quale ottimamente si trasferisce nel corpo di questo goffo personaggio. Un raggio di sole sul crucciato cielo romano, occhi negli occhi senza esitazione, un'intimità generosa protesa verso lo spettatore, subito messo a proprio agio nel raccolto ambiente del Teatro Stanze Segrete. Una scena composta sempre da un pouf rosso, uno spogliatoio, uno sgabello e qualche altro oggetto, un'atmosfera che cambia invece grazie alla sola bravura di Francesca Romana (senza per nulla dimenticare l'abile regia di Marco M.Casazza, di cui è traduttrice), da lugubre locale notturno a luminosa cameretta di un'adolescente. Un'interpetazione giocata sul filo della delusione, del sogno costante e d'una crescente ingenuità, un preciso linguaggio corporeo i cui gesti non hanno mai spinto alla distrazione. E al momento delle congratulazioni, è stata lei a ringraziarci per la nostra apertura, come se l'apertura all'ascolto di uno spettatore non dipendesse affatto dall'abilità dell'interprete a crearne i presupposti. Brava e umile, un sorriso radioso e contagioso che l'accompagna anche fuori, ben lontano dal peso di coloro che spesso vediamo trascinarsi sulle spalle la solennità dell'arte drammatica. In inglese si dice "to  play", ed è stato davvero un gioco, gradevole e al tempo stesso profondo, avvolgente a 360°. Per nulla svuotati, riempiti piuttosto, come una giovane ragazza uruguaiana in viaggio in Italia, la quale per il suo ultimo giorno di permanenza a Roma ha preferito al chiasso della folla che nulla lascia, l'esperienza del teatro, di Fucked. Ci saluta soddisfatta, felice di quest'ultima esperienza italiana, che a lungo le rimarrà dentro. Le crediamo. Non ha deluso le aspettative: inutile dire che lo raccomandiamo. 
A.A.

 

FUCKED di Penelope Skinner
produzione Onni e Amagrat Teatre
Regia di Marco M. Casazza
con Francesca Romana Degl'Innocenti

dall'11 al 20 ottobre presso

TEATRO STANZE SEGRETE
via della penitenza 3 - Roma
info: 06.6872690 - 3889246033 
orari: mart/sab ore 21 - dom. ore 19
Biglietti: 13€ 




INCONTRI:

Sabato 12 ottobre - h.18.00
Casa Internazionale delle Donne
(via della Lungara 19, Roma)
QUELLO CHE LE DONNE (NON) DICONO

in occasione del debutto italiano dello spettacolo Fucked di Penelope Skinner
la protagonista Francesca Romana Degl'Innocenti e il regista Marco Maria Casazza, con Antonia Brancati, agente letteraria dell'autrice invitano il pubblico ad un incontro introdotto da Katia Ippaso.
Interverranno Betta Cianchini, autrice teatrale impegnata con Punto D nell'organizzazione della prima "Notte Rossa" contro il femminicidio (domenica 13 ottobre, Teatro Lo Spazio, Affabulazione, Fonderia delle Arti, Angelo Mai Occupato, Teatro Valle Occupato) e Marina Senesi, che sarà a Roma per la presentazione del suo monologo "Se si può raccontare", (comunicato in allegato) promosso da Europa Donna per il Mese della prevenzione (14 ottobre, Teatro Ambra alla Garbatella). 
Ad accogliere il pubblico ci sarà anche un banchetto informativo sull'attività del' United High Commissioner for Refugees, che quest'anno ha assegnato il premio Nansen a una donna, Angelique Namaika, per il suo impegno in difesa delle donne vittime di tortura. Segue aperitivo (vini offerti da Casale del Giglio).


BIOGRAFIE:

PENELOPE SKINNER - Giovane drammaturga britannica venuta alla ribalta dopo il grande successo di critica e di pubblico ottenuto nel 2008 con il suo primo testo, Fucked, presentato all’Old Red Lion Theatre di Londra e al Festival di Edimburgo. Nel 2010 la sua commedia Eigengrau ottiene la nomination per l’Evening Standard Award for Most Promising Playwright, riconoscimento che vince nel 2011 con The Village Bike, uno spettacolo campione d’incassi, molto amato da tutta la stampa britannica, che le vale anche il George Devine Award. I suoi testi sono rappresentati al Bush Theatre, al National Theatre e al Royal Court Theatre di Londra, tempio della nuova scena inglese, dove è membro del Young Writers Programme.


MARCO M. CASAZZA - Formatosi alla scuola di Massimo Castri, Tadeusz Kantor e Giorgio Strehler, Marco M. Casazza conduce da vent’anni come attore e regista, oltre che dramaturg e traduttore di testi teatrali, una ricerca sui linguaggi del teatro contemporaneo. Con questo nuovo progetto - dopo “5 x UNA!” di Enrico Luttmann (al T. Stabile del Friuli Venezia Giulia), “IL LACCHÈ E LA PUTTANA” di Nina Berberova (Mittelfest - Cividale del Friuli), “THREE SISTERS COME & GO” (Theaterlab - NY), “100m2” di Juan Carlos Rubio e “LA LISTA” di Jennifer Tremblay (Rassegna di Drammaturgia Contemporanea Internazionale ‘In Altre Parole’ - Roma) - indaga le zone d’ombra e le fragilità ma anche la forza inaspettata di una donna che, davanti allo scenario desolato delle illusioni perdute, riesce a ridere di sé e a reinventarsi, superando il lieto fine di cartapesta delle fiabe.


FRANCESCA ROMANA DEGL'INNOCENTI - Si diploma alla scuola Teatro Azione di Isabella Del Bianco e Cristiano Censi. Prosegue la sua formazione con Giancarlo Sepe, Ennio Coltorti, Nikolaj Karpov e l’Odin Teatret di Eugenio Barba. A diciotto anni inizia a lavorare come aiuto-regista alla Plexus T., la produzione teatrale di Lucio Ardenzi. Nello stesso periodo debutta come attrice a Roma e inizia a fare tournée in Italia. Come aiuto-regista, lavora con alcuni dei registi più conosciuti in Italia, come Armando Pugliese, Luca Barbareschi, Antonio Calenda e Gigi Proietti, ed è diretta tra gli altri dallo stesso Pugliese, da Anna Proclemer, Ennio Coltorti, Marco Maltauro. Recita anche in fiction e documentari. Nel 2006, si laurea in legge e inizia a collaborare con l'agenzia letteraria teatrale di Antonia Brancati, nel diritto d'autore. Dal 2010 al 2012 è Artistic Advisor del Perugia International Film Festival. Vive a Barcellona, dove crea, con Raissa Brighi e Maddalena Basevi, la compagnia AMAGAT TEATRE.

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martedì 8 ottobre 2013

HEI! di Ivan Franek, Teatro Due Roma 5-13 ottobre. Recensione



Ehi! Ma non siamo a teatro…siamo al cinema, un cinema primordiale. Quella che vediamo sul palco del Teatro Due di Roma sembra più una scatola nera con poteri straordinari, un antico Kaleidoscope che si apre lasciandoci intravedere i primi protagonisti: Capo e il suo aiutante, i quali ci immergono in un’atmosfera di altri tempi, dove torniamo tutti bambini, condizione alla quale ogni spettatore dovrebbe cedere ogni volta che entra in un luogo d’arte. Ebbene sì, la sala vede in prima fila dei giovani fanciulli che ridono e si divertono alle battute e ai primi sberlecchi delle due marionette, ma se si fa attenzione si può udire qualche eco di voci più profonde e mature, che si trattengono un po' timidamente, ma fanno intuire un sorriso.
Lo spettacolo creato da Ivan Franek, nonostante qualche imprecisione nel rendere al meglio le scenografie e i trucchi e proponendo qualche trovata a volte un po’ monotona, ci trasporta in diversi mondi dove l’attore e la marionetta si amalgamano nei gesti e nelle parole, interagendo con lo spazio scenografico creato a regola d’artigiano, risultando molto gradevole anche agli occhi dei più grandi. 
In effetti ci lasciano sorpresi le immagini create da tavole, nastri, sabbia e bolle di sapone che diventano un piacevole solletico che stimola i più remoti spazi della fantasia: una strada trafficata solcata da uno strambo e molto confuso autista, il quale si imbatte in eventi di ogni genere, da una partita di calcio a un corteo di ballerini brasiliani che ballano una sfrenata samba.  Di seguito vediamo di nuovo i protagonisti lanciarsi all’avventura su due kajak sfidando cascate e rapide, magicamente ricreate con della finissima sabbia (o polvere fantastica?) fatta scorrere dall’alto dall’attore-macchinista di turno. Una catapulta magica ci trasporta da un luogo all'altro, si susseguono varie immagini esotiche che ci portano in un deserto mediorientale, fino ad arrivare al momento più esaltante: il circo!  Finalmente l’attore-marionettista-macchinista prende il proprio ruolo trovandosi in prima persona ad essere personaggio, non più nascosto dietro un artificio, ma con il proprio volto e il proprio corpo ad interagire con gli altri attori inanimati. Con il piacevolissimo sottofondo di una canzone francese, che pare uscire da un grammofono di altri tempi e con un capo giocoliere che fa volteggiare come libellule le sue marionette, veniamo trasportati in un viaggio di sogno felliniano, con tanto di tendone giallo e rosso, elefanti e domatori. La magia si conclude con il lento rimpicciolirsi  dell’immagine, aspettando che l’occhio della seducente scatola si chiuda, mentre la bambola rossa che soffiava le bolle di sapone ci saluta, per lasciarci ancora incantati e di nuovo bambini capaci di immaginare, vivere e sentire l’arte poetica di un mondo che sembra stia per scomparire del tutto.
Valentina Nesi


HEI! spettacolo di immagini ad alta tensione poetica 

un progetto di Ivan Franek per 3 attori, 35 burattini e 365 bolle di sapone 
Ideazione, testo e regia IVAN FRANEK 
Interpreti IVAN FRANEK, GIULIA DE CANIO, VALERIA BIANCHI 
Scenografia AURORA BUZZETTI e IVAN FRANEK 
Costumi SABRINA BERETTA 
Burattini artigianali ANDREA TROVATO, IVAN FRANEK, JULIEN LAMBERT, GIULIA DE CANIO
Costruzione Castolet MASSIMO TRONCANETTI, ALESSANDRA SOLIMENE, IVAN FRANEK, AURORA BUZZETTI 

dal 5 al 13 ottobre presso

TEATRO DUE ROMA 
Vicolo dei due Macelli, 37 (M Piazza di Spagna)
Tel. 06/6788.259 – fax 06/6793.349
teatrodueroma@virgilio.it - www.teatrodueroma.it


 
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lunedì 7 ottobre 2013

Formazione. Teatro Azione: 31 anni e non sentirli. La scuola di recitazione inaugura il nuovo anno accademico con una festa

31 non può essere una casualità o un semplice colpo di fortuna. È un numero che da solo sintetizza forza, concretezza, professionalità, un numero che traccia una linea ben precisa e costituisce una garanzia. Sabato 5 ottobre si è svolta la festa d'inaugurazione del 31esimo anno accademico della scuola di recitazione Teatro Azione. Già, 31, addirittura più dei nostri anni di vita, prima ancora che ci accingessimo a respirare il nostro primo ossigeno terrestre, Teatro Azione era lì, a muovere i primi passi nel campo dell'insegnamento attoriale. Furono Isabella Del Bianco e Cristiano Censi i padri fondatori, i quali, dopo una ventennale esperienza di palcoscenico decisero di gettare le fondamenta di quella che sarebbe diventata una realtà nell'ambito della formazione di nuovi attori. Al di fuori del giro delle grandi accademie (Silvio D'Amico, Piccolo Teatro di Milano, Stabile di Genova e altre), nelle quali non tutti hanno la fortuna di entrare, ci sono dozzine di piccole scuole, di laboratori, di corsi, spesso non all'altezza, spesso tenute da persone che promettono di far scalare le vette dello star business e invece fanno perdere anni preziosi, lucrando sui sogni di aspiranti attori ancora non in grado di riconoscere ciò che è buono da ciò che non lo è. Teatro Azione invece è una delle poche scuole private – che vive dunque delle sole rette degli allievi - ad aver attraversato indenne gli anni e, nonostante il periodo di crisi attuale, è più in salute che mai. Salute frutto certamente della passione e della professionalità delle persone che vi insegnano, ma merito anche dei tanti diplomati che han saputo far tesoro degli insegnamenti e che rappresentano certamente la testimonianza più concreta. 

Accanto al nome forse più altisonante, quello di Elio Germano, ci sono tanti altri che si sono fatti largo sia nel cinema (Nicolas Vapodis, Carolina Crescentini, Maya Sansa), sia nel teatro (si pensi a Marco Blanchi, il quale da anni collabora con la compagnia di Glauco Mauri, oltre che insegnare proprio nella scuola che lo ha allevato; o a Giulia Galiani, più volte presente negli spettacoli di Gabriele Lavia; o ancora Antonio Grosso e Luigi Pisani). Accanto a questi tanti altri attori che stanno muovendo i primi passi con successo: Maria Chiara Centorami, neodiplomata già molto attiva in teatro e fresca del debutto cinematografico nel nuovo film di Federico Moccia; Angelo Sateriale, attore brillante e commediografo dal grande avvenire, che si è già guadagnato un posto nella programmazione del Teatro Lo Spazio vincendo un concorso teatrale con la commedia Tre Terrieri; Piero Grant, il quale ha preso parte al successo del Re Lear di Daniele Salvo al Globe Theatre di Villa Borghese; Francesca Romana Degl'Innocenti, fondatrice di una compagnia a Barcellona e di scena prossimamente al Teatro Stanze Segrete con Fucked (leggi qui); e tanti altri che non trovano spazio in questo articolo, ma che contribuiscono a consolidare l'immagine della scuola. Nonostante gli anni accumulati e la soddisfazione di vedere gli ex-allievi farsi largo, Teatro Azione non si è montata la testa, non promette di scalare le vette con facilità, ma ci tiene a formare persone con la testa sulle spalle, con dedizione al lavoro, che anche dopo anni mantengano quell'umiltà necessaria a sopravvivere in un settore tanto instabile. Negli anni la scuola – ad oggi si contano oltre 100 studenti tra corsi professionali e liberi - si è ingrandita, ha allargato l'organico degli insegnanti, affiancando a docenti di formazione interna (i docenti), altri validi professionisti come Paolo Zuccari o Valentino Villa (entrambi diplomati all'Accademia Nazionale Silvio D'Amico), ha intensificato il proprio piano formativo inserendo materie a scelta come Drammaturgia - corso finalizzato alla stesura di un testo da rappresentare – e danza, istituendo il Teatro Azione Campus, ovvero una ricca agenda di seminari di approfondimento con personalità del mondo dello spettacolo e dell'insegnamento, lanciando un terzo anno professionale finalizzato alla produzione di uno spettacolo da mettere in scena in un teatro pubblico, il quale per molti allievi rappresenta la prima vera esperienza lavorativa.

Questo è dove si è giunti, partendo da quel lontano giorno di 31 anni fa, di strada ne è stata fatta tanta, l'impressione è che tanta ancora se ne farà. Dall'incontro di inaugurazione dell'anno accademico, oltre alle testimonianze e gli aneddoti degli ex-allievi ospiti della serata, apprendiamo che da quest'anno la scuola si avvale della collaborazione della casting director Lilia Trapani, con il fine di gettare un ponte diretto tra la scuola e il mondo del lavoro; che per il secondo anno consecutivo la sala di Via dei Magazzini Generali 34 ospiterà una stagione teatrale volta ad accogliere spettacoli di ex-allievi, che si cerca persino un secondo spazio e che, cosa forse più importante in questo periodo così cupo, si cercherà di formare persone adulte e consapevoli prima ancora che attori, professionisti seri piuttosto che celebrità, insegnanti di se stessi invece di eterni allievi. Alla luce di ciò, in un contesto culturale decandente, è giusto aprire festeggiando, è giusto partire con un sorriso accogliente e un calice alto per brindare a questa piccola isola felice. Non resta che tenere duro e fare i nostri auguri di buon anno accademico alla scuola, agli insegnanti, ai nuovi allievi, agli attori di domani.

A.A.

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venerdì 4 ottobre 2013

Trincea di signore, Teatro Millelire 1-6 ottobre. Recensione "molto beckettiana"


Spesso capita di uscire da teatro e trovarsi di fronte alla fatidica domanda che ne pensi?; a volte senti che la prima, istintiva risposta che ti viene è molto beckettiano. Un po' come se molto beckettiano basti da sé a racchiudere delle sensazioni, più che a indicare un genere, o come se il molto beckettiano possa sostituire qualunque altra valutazione e diventare, con tutta la sua forza, un aggettivo positivo; o ancora, diventa a volte un modo sbrigativo per nascondere il proprio pensiero. Tuttavia non crediamo che molto beckettiano basti come sintesi. Samuel Beckett è stato una figura influente, influentissima, nel panorama teatrale e letterario, tanto che ancora oggi i suoi testi sono molto rappresentati e moltissime sono invece le pièce molto beckettiane che prendono spunto dalle sue tematiche. Trincea di Signore è uno di questi testi del filone post-beckett, qualcuno lo ha persino identificato - esagerando - come un Aspettando Godot al femminile.


Dinamica simile, non uno scenario post-atomico, ma una situazione pre-apocalittica. Due signore di una certa età, forse due casalinghe, abbarbicate alla loro trincea domestica ricca di oggetti riconoscibili, un'alluvione e il livello dell'acqua che lentamente sale. Scenario solo apparentemente surreale, visti anche i peggioramenti climatici degli ultimi decenni che lo rendono verosimile. Tuttavia si percepisce lo stesso senso di vuoto, d'attesa, stessa immobilità, sebbene questa sia qui dettata da forze superiori che vanno al di là della volontà d'azione dei due personaggi. Ma mentre Vladimiro ed Estragone non possedevano niente, Ortensia e Gervasia possono ingannare il tempo e l'attesa aiutandosi con oggetti e gadget moderni: la radio, le riviste, i cruciverba, una fiction di cui parlare, un telefono senza linea che rappresenta un'ipotetica via di fuga verso l'esterno. Insomma, non tutto qui sembra perduto, la radio trasmette notiziari e notizie dall'esterno - o è forse la mente di Gervasia a immaginarli? - sembra solo una terribile sciagura climatica, fuori il mondo sembra continuare a scorrere con i fatti di cronaca e le notizie dal mondo politico. L'attesa diviene quasi giusticata, attendere la fine dell'alluvione per tornare alle proprie esistenze - di cui poco si sa in realtà - perché fuori c'è un mondo che continua a girare coi suoi ingranaggi sbilenchi e tragici. E d'improvviso vedi emergere le differenze rispetto all'opera di Beckett, il senso di vuoto è meno opprimente, quasi confortevole, non dai caratteri universali che contraddistinguono Vladimiro ed Estragone, ma da una visione più personale e circoscritta a quelle due esistenze prese a campione: Ortensia e Gervasia. Quasi non ci riguardasse nemmeno, quasi non foss'altro che un fine settimana uggioso, che altro fai se non aspettare che spiova leggendo un libro, ascoltando radio, guardando tv o chiacchierando di niente. C'è poca possibilità di scappare e qualora l'acqua salisse tanto da metterci in pericolo, l'istinto di conservazione suggerisce di salire sul tetto o come Ortensia e Gervasia fuggire col canotto, rievocando una delle immagini più suggestive dell'intero spettacolo. 


Le due attrici - Lydia Biondi e Mirella Mazzeranghi - sono davvero brave, complici, spontanee, non eccessive, esatta estrazione della contrapposizione dei loro personaggi: una colta, l'altra frivola; in dialogo senza mai dialogare davvero, confrontandosi senza mai confrontarsi, unite nella trincea, l'una ancorata all'altra ma forse nemmeno indispensabilmente, perché ognuna ha e conserva il proprio mondo con cui distrarsi che l'altra non comprende. La regia, curata dalla stessa Lydia Biondi, è indispensabile e molto essenziale, mette a fuoco i punti centrali senza sbiadirli. Dunque nel complesso l'opera, nella sua composizione finale che è lo spettacolo, è un buon lavoro, sebbene il testo, seppur richiamando alla mente l'amato Beckett, ci appare evanescente, riallaccia la nostra memoria al tema beckettiano, ma quasi gli sfugge, il molto diventa all'incirca, non accade niente - come in Godot - ma non si arriva a quel senso di paralisi del pubblico che resta in attesa carico di tensione. E nulla si aggiunge, quel senso di vuoto e di profonda immobilità sono ancora fermi lì, all'inarrivabile mondo di Beckett, sebbene continui a influenzare le nostre vite così vagamente beckettiane. E se tanto forte è il bisogno che ci spinge ancora a ricercare artisticamente Beckett, vuol dire che Aspettando Godot non ha chiuso del tutto il cerchio, ma qualcosa di inespresso e ineplorato permane: arriverà, o forse anche noi, inutilmente, stiamo aspettando Godot?

A.A.



TRINCEA DI SIGNORE
di Silvia Calamai
regia Lydia Biondi
con Lydia Biondi e Mirella Mazzeranghi

dall'1 al 6 ottobre presso

TEATRO MILLELIRE
Via Ruggero de Lauria, 22 - Roma
Biglietti: Intero €12 - Ridotto €6.50-€8 (prenota)


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