venerdì 20 dicembre 2013

La signorina Papillon, di S.Benni. Teatro Kopo. Recensione

Uno spettacolo veloce esige una recensione veloce, nonostante l'orologio già ricordi i lunghi e mattutini impegni di domani. Ma se consideriamo i soli tre giorni di repliche de La signorina Papillon di Stefano Benni in scena al Teatro Kopo, è uno sforzo che possiamo - e dobbiamo - sostenere. È stato come un colpo di pistola bruciante, improvviso, fulmineo, ha attraversato la sala in maniera repentina, tanto che un piccolo vortice d'aria sembra essere rimasto a far vibrare ancora un piccolo grumo di suoni. Una messa in scena brillante, a tratti imprendibile, che molto si confà al suo autore, Stefano Benni, noto soprattutto come scrittore ma che ha all'attivo anche molti scritti per il teatro. Un mondo che non gli ha dato pari fortuna della letteratura, forse perché fuori tempo limite - la scena tra i duellanti ricorda molto quella dei coniugi Smith di un certo Ionesco - o magari perché troppo inclini a considerare la farsa o l'assurdo come generi distaccati e inadatti a comunicare il contemporaneo. Eppure spesso sotto la superficie giocosa di un testo di Benni, si nascondono dei piccoli fotogrammi che ritraggono la nostra società. Come i personaggi che appaiono ne La signorina Papillon, una giovane spregiudicata e mondana, a caccia di fama e uomini, un militare massone bramoso di potere, un poetuncolo che svilisce i propri scritti per cibare il volere popolare. Infine Rose (Sabrina Maggiani), una timida ragazza in fuga dalla realtà, rinchiusa nel suo sogno parigino di tardo ottocento. Rose è troppo timorosa per rispondere alle proprie pulsioni, così, come degnamente si addice ad una ragazza ottocentesca, chiusa nel suo giardino colleziona farfalle e dipinge rose. Mentre i tre personaggi - reali o immaginari - le narrano di Parigi, delle ultime mode, le stramberie del linguaggio e della mondanità parigina, in Rose fiorisce il mito, le situazioni si accavallano diventando surreali, imprevedibili e contradditorie. 




Nel continuo scontrarsi di sogno e realtà, entrano in collisione i due mondi, l'ottocento e l'odierno. Questo in scena è abbastanza evidente, perché i personaggi sono vestiti in abiti che richiamano un tempo passato, ma appaiono anche altri oggetti più squisitamente moderni, come un orologio da polso col cinturino in plastica nera o un registratore vocale. Si è continuamente indotti alla confusione, al dubbio di quale tempo si stia vivendo. E c'è solo un tempo dove la convivenza tra due mondi può essere plausibile, ed è quello onirico. La regia molto ragionata di Francesco Marchesi  tenta di riprodurre questa continua illusione, Rose è posta in una sorta di bozzolo bianco, come fosse una fanciulla in attesa anche lei di sbocciare o divenire una farfalla. Non un bianco netto, ma un bianco più opaco, come quello indefinito dei sogni; i personaggi quando entrano in scena sembrano filtrare da una specie di nuvola. I toni sono grotteschi e irrealistici, parola e movimento scenico si fondono spesso in un unico linguaggio. Piace soprattutto come Francesco Marchesi sia riuscito a trovare un codice molto strutturato e preciso al suo linguaggio corporeo. Una tale impostazione, fosse stata approfondita anche nei personaggi di Andrea Mosti e Priscilla Bertelloni - i cui movimenti erano studiati, ma più tendenti al convenzionale - avrebbe avuto interessanti effetti. Scenicamente non si ricercano grandi effetti, ma tutto deve passare per la parola, così gli attori - e le luci - diventano il veicolo fondamentale per trasmettere il sogno di Rose. Tutto si gioca sul ritmo e l'energia, le parole si fanno quasi inafferrabili, come un'immensa colonia di farfalle, impossibile vederle tutte quante. Ne prendiamo il più possibile col retino, ma non sempre riusciamo. Gli attori sono preparati tecnicamente e non si perde una sillaba, ma si sente a volte la necessità di un dilatamento, per poter metabolizzare la parola acuta di Benni e poi ripartire. Un lusso che non ci viene concesso, afferriamo dunque il prendibile e lasciamo sfilare il resto, frutto certamente di un lavoro attentissimo e senza sporcature. Un gruppo da seguire, pieno di verve, con già altre lavori in cantiere e una direzione, quella di Francesco Marchesi dalla personalità brillante e viva. Al Teatro Kopo fino a domenica 22. 
Matteo Di Stefano



LA SIGNORINA PAPILLON di S.Benni
regia Francesco Marchesi
con Andrea Mosti, Priscilla Bertelloni, Sabrina Maggiani e Francesco Marchesi

dal 20 al 22 dicembre presso

TEATRO KOPO 
Via Vestricio Spurinna 47 - Roma
Biglietti: intero €10 - ridotto €5

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mercoledì 18 dicembre 2013

È morta zia Agata!?!: quando l'intrattenimento è positivo. Teatro Millelire. Recensione

 dal 17 al 31 dicembre al Teatro Millelire



Non amiamo né le commedie musicali, che consideriamo un ibrido senza spina dorsale, né tantomeno le commedie fine a se stesse, che non mirano ad altro se non quello di una sorda e vuota risata. Eppure, contro ogni pronostico dei presenti, siamo usciti col sorriso e una mano tesa. Prima di tutto perché abbiamo visto in scena dei bravi attori, senza quella fastidiosa deriva ammiccante e volgarizzante; secondo poi perché il disegno di È morta zia Agata!?! scritto e diretto da Lorenzo De Feo in scena al Teatro Millelire si regge quantomeno su una idea di regia chiara, lucida, leggibile, che predilige la pulizia all'intrattenimento nudo e crudo; infine perché nonostante la semplicità della struttura e della storia, vi è comunque qualcosa da comunicare, il quale ha a che fare con il nostro contemporaneo. Lo svilimento di ogni valore umano nel nome di un facile arricchimento personale, il dominio del denaro sulla virtù e la bontà. 
È la storia di tre avidi cugini e una ricca zia dalla pelle dura, i quali prima organizzano un piano congiunto per eliminare la vecchia zia, poi iniziano a tramare l'uno contro l'altro per essere gli unici vincitori. Chiaramente i risvolti non sono quelli sperati, perché quando gli alleati tramano alle spalle degli stessi, il risultato diviene quello di un'autodistruzione di massa. Quello che succederebbe nel caso di una guerra atomica globale, dove tutti cercando di distruggere tutti finirebbero per distruggere se stessi. Questo avviene, in fin dei conti in maniera abbastanza prevedibile, ma ci si arriva in maniera gradevole, con una risata garbata e non forzata. Privilegiando un allestimento che richiama subito l'idea del fumetto o d'un cartoon, con scenografie dipinte su dei pannelli, abiti sgargianti dai colori vivaci e trucchi vistosi, si è voluto aderire e ricalcare la sopradetta semplicità narrativa. Un'impostazione che rende lo spettacolo aperto ad un pubblico di tutte le età, da vedere con la famiglia coadiuvata dai più piccoli componenti, certamente preferibile per vivacità ed eleganza agli ormai avariati palinsesti cinematografici natalizi. Se c'è da scegliere l'intrattenimento, quantomeno che sia un'intrattenimento positivo. Una buona regia e dei bravi attori, quali citiamo soprattutto Mariano Riccio - impassibile e mai eccessivo nel ruolo del malato mentale Teo, col merito  di non averlo fatto mai apparire uno stupido anche quando ciò era palese - e Jessica Zanella - la subdola Cuneconda, una Crudelia meno terrificante, più enfatica del collega ma altrettanto brava e che in alcune controscene ci ha ricordato la Marchesini -, affiancati da Antonio Lupi, forse troppo simile ad altri personaggi da lui intepretati. 

Intorno ai tre protagonisti le due figure jolly, Gabriele Mangion e Mario Piana, ora servi di scena, ora burattinati o personaggi aggiunti o controscenisti, la cui riuscita è dovuta soprattutto all'effetto comico del loro sincronismo. Tolte le gag, si ride anche per il connubio tra tempi comici e linearità della battura (soprattutto in Mariano Riccio), in momenti che probabilmente non volevano essere necessariamente comici. Va detto inoltre che per la prima volta vediamo sfruttato pienamente il piccolo spazio del Teatro Millelire, sia a livello illumotecnico che scenografico. Insomma una bella favoletta con morale finale raccontata con precisione. Tutto perfetto dunque? Sia mai! Le canzoni ancora una volta ci distraggono, interrompono la consequenzialità e - tolte le solite qualità degli intepreti - ci spingono a scambiare due parole coi vicini. I testi risultano troppo banali, tramutano lo spettacolo da aperto a tutti a "per un pubblico dai 5 agli 8 anni" ed hanno quel non so che di stacchetto televisivo. Superflue anche sono alcune sensualità gratuite durante i detti stacchetti che abbiamo trovato decontestualizzate. Abolito mentalmente il deficit di queste scelte - contro le quali poco c'è da fare, essendo ormai un marchio di fabbrica nelle produzioni targate Millelire - per una volta siamo controcorrente persino a noi stessi, ammettiamo la sconfitta e suggeriamo senza troppi sofismi contenustici l'allegra black comedy (musicale) È morta zia Agata!?! come una possibile scelta teatrale per il periodo natalizio.
A.A.

È MORTA ZIA AGATA!?!
scritto e diretto da Lorenzo De Feo
con Gabriele Mangion, Mario Piana, Mariano Riccio, Antonio Lupi e Jessica Zanella

dal 17 al 31 dicembre presso

TEATRO MILLELIRE
Via Ruggero De Lauria 22 - Roma


 
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sabato 14 dicembre 2013

Eva Braun, l'altra metà del fuoco. Teatro Millelire. Recensione




Non riusciamo a trovare un punto di partenza. La serata si è raffreddata nel bunker dove Adolf Hitler e Eva Braun hanno scelto di suicidarsi insieme. L'uomo che ha ormai incarnato l'immagine del male - lasciando in eredità la più grande tragedia della storia dell'uomo - ed Eva Braun, sua amante per 13 anni, moglie per un giorno, vedova per pochi minuti. Per una sera è il teatro Millelire a farsi bunker, la platea un piccolo e poco affollato strumento di tortura in cui si compie un olocausto teatrale. Sì, perché, qualcosa sfugge, nella trama di Eva Braun, l'altra metà del fuoco. Lo spettacolo ripercorre gli ultimi minuti della vedova di Hitler, prima che il veleno faccia effetto. Lo fa servendosi di un altro personaggio storico, Antonia Pozzi, poetessa italiana dei primi del novecento, morta suicida molto giovane. Ciò che le lega è il comune destino del suicidio per amore. Antonia viene inviata dal Signore del Giardino dei Suicidi a prelevare la Braun e tentare un ultimo tentativo di redenzione, aiutandola a ridimensionare il mito di Hitler. Sebbene con l'immaginazione possiamo convincerci della bontà dell'intuizione, si fatica a coglierne direzione e soprattutto l'utilità comunicativa di tale approccio, soprattutto perché dallo scontro non emerge nulla di rilevante. Il clima spesso diviene di un melenso che richiama alla mente certe soap-opera, Antonia ha un atteggiamento inquisitorio, annota tutto su un taccuino e il suo è più il piglio di una detective che non di una redentrice. Per raggiungere il suo obiettivo Antonia sviscera i suoi atti di accusa contro l'uomo amato da Eva, alcuni dei quali appartengono al ramo delle ipotesi non confermate. Emergono 50 minuti di interrogatorio da cui esce davvero poco, manca un lavoro d'indagine profonda sulla figura di Eva Braun, manca la prodondità emotiva di una donna che non si curava degli atti del suo amante, ma che si sentiva trascurata e messa in secondo piano dai suoi obiettivi politici. Che non sia stata poi una donna intelligente come altre donne che il Fuhrer frequentò è un fatto, ma questa Eva Braun è davvero vittima di una costruzione superficiale, mal sorretta dall'interpretazione di Antea Magaldi risultata priva di spessore, troppo enfatica nei toni che imitavano soltanto l'emozione.
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"Non ci credo!", tanto lontano dal raggiungere una credibilità che se non sapessimo di cosa  tratti lo spettacolo, potremmo persino confonderla con un personaggio di una commedia borghese. In fondo il suo desiderio di essere la prima donna di Germania era un sogno piccolo-borghese, gli anni passati nella residenza di Obersalzburg, tra servitù, vestiti e cosmetici costosi, cambi d'abito ogni ora e parrucchiere ogni giorno, ma non c'è nella sua rappresentazione alcun fascino, né pietà, non c'è il sottostrato di una donna vissuta 13 anni viziata e trascurata a fianco dell'uomo più spietato della storia e che tentò due volte il suicidio; eppure ci sarebbe tanta ciccia da mettere in un personaggio come Eva Braun, si può scegliere di renderlo patetico o frivolo, freddo o magnetico, impenetrabile o vulnerabile, un ventaglio infinito di ipotesi che tenti di spiegare cosa legasse tanto questa donna - a parte lo stare accanto ad un uomo potente - ad Hitler, dove piantasse davvero le radici questo amore. Invece lo si è reso inconsistente, sterile, forse fuorviati dall'idea di una donna non raffinata e intelligente come le altre amanti di Hitler, il che però non significa certo mancanza di una personalità complessa. Alla fine ciò che vediamo è una donna molto simile a un'innocente Giulietta innamorata che si uccide per il suo Romeo coi baffetti e lo sguardio inquietante. C'è da aggiungere, a discolpa, che le attrici sono molto giovani, dai tratti ancora immaturi. Apprezziamo il coraggio della scelta e dell'autoregia curata dalla stessa Antea Magaldi, ma forse una regia esterna avrebbe quantomeno salvato il salvabile. 
A.A.



EVA BRAUN, l'altra metà del fuoco.
di Alessandro Valenti
con Antea Magaldi e Carlotta Oggioni

fino a domenica 15 presso

TEATRO MILLELIRE
Via Ruggero di Lauria 22 - Roma
Biglietti: intero €12 - ridotto €6.50

 
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mercoledì 11 dicembre 2013

La visita di oggi di Andrea Zanacchi, Teatro Trastevere. Recensione

Ci resta impresso soprattutto quel momento di intimità finale, di verità, quell'autenticità spogliata da ogni teatralità farsesca, da ogni finzione. Arriva quando si è giunti alla risoluzione e tutti i tasselli drammaturgici hanno fatto chiarezza sulla situazione. È il momento più denso dello spettacolo, quello da cui forse occorrerà retrocedere e contaminare tutto il resto. Non uno spettacolo brutto, né scadente risulta il testo, appare però viziato da certi "italianismi" duri a morire, ancora troppo verbosi, mimici, didascalici. Si dice troppo, e non lo si dice per raccontare, ma per spiegare, come se una battuta fosse il ribadire un concetto appena espresso per renderlo più chiaro, come se una smorfia facciale serva a commentare uno stato d'animo. Non ce n'è bisogno, o non ce n'è bisogno in quantità eccessiva. C'è un sottostrato emotivo che diventa tanto più diretto quanto più si rinuncia all'orpello. Lo spettacolo La visita di oggi scirtto da Andrea Zanacchi e diretto da Manuela Bisanti, andato in scena al Teatro Trastevere, ha vissuto un po' dell'uno, un po' dell'altro, a fasi alterne si è sfiorata la semplicità che muoveva verso la verità comunicativa; altre volte invece il gioco ha prevalso, l'eccesso di frenesia ha reso la messa in scena più briosa, ma allo stesso meno coinvolgente. Il testo estremamente surreale - con spunti degni di nota - si prestava certamente sia all'uno che all'altra lettura, ma quell'ultimo frammento ci ha fatto capire quanta sostanza in più sarebbe potuta emergere. 


Armando e Ermanno sono due uomini che si ritrovano misteriosamente nella stessa stanza di un manicomio, intrappolati in una camicia di forza. Ermanno è un pubblicitario, si trova lì per errore. Armando invece sembra ormai accettare la sua condizione di malato di mente, sebbene la sua sembri una follia forzata dalla volontà di fare il matto, piuttosto che una reale infermità; è anche quello che molto spesso appare più lucido nelle analisi. La reclusione forzata spinge i due coinquilini psichiatrici a ricercare un dialogo, un confronto, persino una conoscenza dell'altro, nonostante per un matto sia difficile prima di tutto conoscere se stesso. Infatti tolto qualche episodio personale che viene raccontato, i due restano sempre sul chi va là e col sospetto di chi sia quello strano individuo che si trova davanti. Dei due, come si diceva, sembra Armando quello che più riesce ad andare a fondo. Dà l'impressione di sapere molte più cose di Ermanno di quanto non sappia egli stesso di sé. Armando coinvolge nel suo gioco della follia Ermanno, quest'ultimo inizia a vacillare, come se la pazzia non fosse altro che una condizione indotta. L'obiettivo è quello di spingere Ermanno verso l'autoanalisi e la conoscenza di sé stesso. La svolta finale lascia di sorpresa e capovolge completamente ciò che fino a quel momento si era creduto. 

Emerge una follia raccontata come non conoscienza di se stessi, come risposta ad una condizione di isolamento sociale. I due attori sono brillanti, la loro recitazione predilige il ritmo, ci sono pochi silenzi - ma quando ci sono diventano penetranti - però a volte non si parlano davvero; Andrea Zanacchi, sebbene suo era il ruolo del matto, è sembrato più posato e calcolato, la sua recitazione ha mostrato più sfumature - e fors'anche sporcature dovute a qualche spunto all'impronta - rispetto a quella di Giampaolo Filauro, la cui performance è risultata un po' troppo frenetica, poco reattivo in ascolto, spesso ridondante in un'atrofia ritmica che ha toccato spesso la stessa nota d'agitazione. Magari ha solo eseguito gli ordini di regia, perché alla fine è tutto suo il momento di chiusura, quel momento di estrema sincerità in cui lo vediamo in una veste totalmente diversa, da cui emergono pause, colori, pensieri e verità di sentimento. Crediamo che si possa rendere ancora più attraenti spettacolo e testo - già degni di attenzione - se si provasse a percorrere quest'ultima strada, per raggiungere strati più profondi, come lo è la nostra condizione di uomini soli e un po' folli, come i temi trattati hanno lasciato intravedere per poi nascordersi dietro il velo protettivo della quarta parete. 
A.A.

LA VISITA DI OGGI di Andrea Zanacchi
con Andrea Zanacchi e Giampaolo Filauro
regia Manuela Bisanti

visto al

TEATRO TRASTEVERE
Via Jacopa de' Settesoli 3 - Roma




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martedì 10 dicembre 2013

Il coraggio fa..90. Cronaca calcistica, familiare e storica al teatro Kopo.


Quando avranno il coraggio di tirare un altro calcio di rigore saranno degli eroi.Nella vita la paura la vinci solo se hai il coraggio di affrontarla un'altra volta


Il monologo è la forma teatrale più ostica, la preferita da molti interpreti, probabilmente la più temuta dagli spettatori. Siamo sempre prudenti verso questa forma espressiva, nonostante alcuni degli spettacoli che abbiamo preferito siano proprio monologhi. Se l'attore lo regge, se riesce a farsi carico dell'intero palcoscenico con la voce e il corpo, allora ti spelli le mani dagli applausi per quel solo interprete che ha saputo emozionarti e stamparsi nella tua memoria, occupando a lungo (o in rari casi per sempre) una frazione della tua esistenza. Ma - c'è sempre un ma - se mancano le condizioni attoriali, oltre che drammaturgiche, i primi cinque minuti ti fanno capire che sarai sottoposto ad una tortura che si consumerà lentamente. Lo spettacolo Il coraggio fa.. 90 appartiene fortunatamente al primo tipo. Non sappiamo se e per quanto tempo Giuseppe Arnone occuperà i nostri ricordi, ma certamente il suo primo monologo da autore è ben riuscito, tanto quanto lo è stata la sua traduzione scenica in cui lo stesso Arnone occupa l'unico ruolo. Il gradimento del pubblico è stato elevato, tre serate praticamente piene al novello Teatro Kopo, più una replica aggiuntiva a richiesta per domenica prossima.
Il testo è in parte autobiografico, parte dal vissuto dell'autore per diventare materia teatrale fruibile nel rispetto della riservatezza. I riferimenti sono tanti, a partire dall'apertura quando il protagonista si presenta in perfetta tenuta bancaria e l'accento milanese (nella seconda parte sarà il dialetto siciliano a prevalere, vera origine dell'autore/attore). È l'altra parte di Giuseppe Arnone, quella che vive di giorno; infatti egli davvero lavora in banca quando non fa l'attore (un caso isolato, solitamente gli attori fanno i camerieri). Non faremo il nome, ma noi saremmo volentieri clienti di una banca che abbia come impiegato il simpaticissimo e vivace Arnone. 


Da buon italiano il protagonista banchiere porta con sé la gazzetta dello sport, all'interno della quale si trova l'incidente scatenante del ricordo, quello che mette in moto la macchina del tempo della memoria emotiva e nello scorrere indietro riporta ai mondiali degli anni 90, quelli di Baggio, Schillaci, Bergomi, Zenga, Bergomi e.. lo iettatore Bruno Pizzul. Campioni che diventano spesso parodie, ma che sono per il protagonista anche sensazioni positive: l'euforia del primo mondiale, l'atmosfera di casa con la famiglia tutta riunita attorno al televisore, l'osservazione da vicino di ogni singolo componente. Il calcio è l'elemento che spesso ha unito il popolo italiano, ma la telecronaca calcistica si accavalla anche alla fotografia di un'epoca, al racconto del primo amore, delle prime delusioni, del rapporto con la famiglia, degli insegnamenti dell'ormai leggendario Nonno Turi. Lo spettacolo scivola via, è come una saponetta bagnata, inafferabile, si passa dalla partita alle emozioni personali, dalle parodie a omaggi di poeti di nicchia come Fosco Maraini  (c'è una poesia "con parole inventate" tratta da Gnosi delle Fanfole). Arnone gestisce la giostra, diretta da Claudio Zarlocchi, serpentina tra i 50 spettatori in sala come fece Roberto Baggio fece con i cinque avversari, con maestria e uno studio attento che si spinge fino alla cura del gesto. Gli applausi sono meritati, qualcuno quasi surreale, come quello a scena aperta mentre il fu banchiere diveniva tifoso indossando la divisa e i calzettoni azzurri della nazionale: chiamatelo se volete patriottismo calcistico. L'Italia è fuori, è la prima sconfitta sportiva per il giovane Giuseppe, ma sono anche i primi insegnamenti che da questa avventura ne sono derivati; la perla finale è dello zio Rosario, parente aggiunto della pièce, che in un caloroso e commosso omaggio viene svelato soltanto alla fine: Rosario Livatino, magistrato italiano assassinato ad Agrigento il 21 settembre del 1990. È la conferma definitiva che Il coraggio fa... 90 è più interessante di una semplice cronaca calcistica.
Matteo Di Stefano



IL CORAGGIO FA... 90
di e con Giuseppe Arnone
regia di Claudio Zarlocchi

6-7-8 + a grande richiesta domenica 15 presso

TEATRO KOPO'
via Vestricio Spurinna 47/49 (zona cinecittà)
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giovedì 28 novembre 2013

Terapia di Coppia, Teatro dei Conciatori. Recensione

La terapia di coppia non è una questione individuale, non è un impasse irreversibile, è un fenomeno sociale, umano, figlio di certi periodi storici più che di altri; in più è un brillante, profondo e coinvolgente spettacolo messo in scena da un testo di Paolo de Vita, con l’interpretazione dello stesso e della bravissima Anita Zagaria, con regia di Antonio Serrano.

Chi di noi non ha passato almeno una volta nella vita una situazione di stallo sentimentale? Anche solo indirettamente, tramite gli occhi dei genitori, parenti, amici o conoscenti. E chi di noi non percepisce sempre un alone oscuro che si appresta a tarpare le ali a quei due cuori che per la prima volta s’imbattono e palpitano l’uno per l’altro, pronti a levarsi in volo verso un’altra dimensione, leggera, sognante, magica e favolosa? Appena si parla di coppia è impossibile non avere subito qualche preconcetto. Oggi i giovani non si sposano più, solo le passate generazioni riuscivano (e riescono) a tenere in piedi solidi e strutturati rapporti amorosi. Ogni frase spesa per cercare di spiegare tale fenomeno è inappropriata e ogni parola è superflua, fuorviante. Ma la domanda è: cosa succede alle persone innamorate, perché un bel giorno, dopo tanta vita vissuta insieme e un'inconsapevole inerzia che li ha avvolti, si guardano allo specchio, osservano chi hanno accanto a sé e pensano: chi sono, che ci faccio qui? 




I due attori, nel ruolo di marito e moglie, esprimono perfettamente le sensazioni che scaturiscono dalla suddetta questione. In un divertentissimo fluire scenico di quadri familiari quotidiani, ricostruiscono immagini a noi ben note, che ci trasportano e coinvolgono in risate, pensieri, sbuffi, sospiri e commozione, in un vortice di umana banalità e follia. È ben costruito il testo, sono molto chiare le situazioni e gli intrecci; c’è una tensione scenica forte e coerente, che fatica all’inizio a rivelarsi, ma si apre in corso d’opera trascinando alla massima attenzione lo spettatore. I dialoghi scorrono, la varietà dei contenuti è sostenuta da due importanti interpretazioni, le parole e il linguaggio sono studiati, non lasciati al caso e mai banalizzati; i movimenti naturali e non imprigionati da una regia opprimente che, anzi, lascia molta libertà agli attore e trovando delle soluzioni efficaci, come nella parte finale del secondo tempo, dove i due attori lasciano la scena vuota e stanno vicini a noi, lanciandosi e lanciandoci parole, creando un’atmosfera impressionante.


Si esce da questo spettacolo a cuor leggero, ma non accompagnati da un classico happy ending, piuttosto ben coscienti che nessuno, neanche una patetica ipotetica dottoressa-specchio, possa avere una soluzione ai grovigli matrimoniali e sentimentali. La coppia è una convenzione, dentro ci stanno due esseri umani, i quali però scelgono essi stessi di partecipare a quel sadico gioco delle parti che li rende tanto folli, quanto del tutto umani, sicuri. Perché l’amore e la perfezione saranno pure due idee lontane per creature celesti o immaginifiche, ma per noi poveri diavoli è un gran trambusto quotidiano e, tra un volo pindarico e una bolletta del gas, chi può dire che un equilibrio non possa davvero trovarsi: basta non aver paura di amarsi ancora ed essere un po’ folli nella nostra umana limitatezza.


L’invito a teatro è dunque calorosamente incoraggiato.
Valentina Nesi


TERAPIA DI COPPIA di Paolo De Vita
regia Antonio Serrano
con Paolo De Vita e Anita Zagaria
scene Dario Dato - costumi Rita Forzano

fino all'8 dicembre presso

TEATRO DEI CONCIATORI
via dei conciatori 5, 00154 - Roma
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lunedì 25 novembre 2013

Bambini avariati nella buca di sabbia. Recensione Buca di Sabbia, Teatro dei Conciatori





Alla fine abbiamo messo le due mani sulla pancia come a tamponare una ferita, una voragine, da cui zampillavano fuori tante immagini, tantissime sensazioni; c'era da chiudere gli occhi e tenere strette le due mani su quel piccolo canale, ma la nostra morbosità ce lo ha impedito: apriamo prima un occhio, poi l'altro, così ci siamo messi a sbirciare quello che è fuoriuscito, abbiamo osservato da vicino le nostra membra scomposte mescolarsi alla tanta vita che era dimentica. In un attimo ci accorgiamo che qualunque terapia non può riuscire a fare una fotografia di te stesso meglio di quanto non faccia poco più di un'ora in un teatro, o per essere più precisi, meglio di quanto abbia fatto Buca di Sabbia di Micha Walczak, andato in scena al Teatro dei Conciatori. Come se il nostro guscio fosse anch'esso di sabbia, il quale facilmente è stato scavato dalle mani di Tony Allotta e Sabrina Dodaro, per estrarne tutto ciò che restava sepolto. Non riusciamo proprio a restare indifferenti. Quando inizia uno spettacolo assumiamo un'aria seria, posiamo un taccuino sulle ginocchia tenendo una penna in mano pronta ad annotare, scrivere, sezionare come un bisturi il corpo della struttura rappresentativa. Bianco, un foglio completamente bianco. Alla fine l'abbandono prevale sugli istinti analitici: sono gli spettacoli migliori, quelli che non ti danno modo di riflettere e pensare a ciò che stai vedendo, ma semplicemente ne diventi parte. Una nuova presa di coscienza: più il taccuino contiene appunti, più lo spettacolo è discutibile. 
Bianco è il colore che non t'aspetti su un foglio d'appunti, profuma di sorpresa. È il colore dell'inaspettata analisi di un rapporto uomo-donna, una strada ampiamente battuta e da tempo divenuta insipida, che riesce nuovamente a stuzzicare l'appetito con nuovi allettanti sapori. Due adulti bambini, o due bambini che giocano a fare gli adulti? È il dubbio che muove l'attenzione, è la non completa identificazione di quella strana immagine di un uomo in boxer e giacca, con barba e capelli brizzolati, tanto ottusamente fedele alla sua ossessione per Batman; è l'innocenza di una bambola di pezza che si scontra col fascino maturo delle calze autoreggenti. Sembra un gioco ridicolo, ma l'intera vita è scritta secondo quel copione; che siano le nostre ossessioni da bambini o da adulti, è sempre una lotta tra la solitudine e la condivisione, tra l'incapacità e voglia (nascosta) di accogliere/respingere l'altro nella/dalla propria buca di sabbia e la tardiva presa di coscienza del bisogno dell'altro. Perché c'è una differenza enorme tra la solitudine per esclusione dell'altro e la solitudine per mancanza dell'altro. Qualcosa manca, ed è tangibile in questo metaforico allestimento, quando non c'è null'altro tra le mani che una bambola fattasi inanimata e senza consistenza. Il gioco dei recinti ha prodotto un campo aperto dove non c'è più possibilità che qualcuno entri. Non c'è più alcuna linea, l'ossessione del gioco si è tramutata nell'ossessione per l'altro, ma l'altro non c'è più. 


 Davvero un testo interessante, due ottimi interpreti, efficace la traduzione registica di Gabriele Linari, il quale scegliendo la via del minimalismo è riuscito a dar consistenza al simbolismo astratto dell'autore: scatola nera, pochi oggetti, zero orpelli, l'importanza fondamentale degli attori in questo disegno, il morbido disegno luci e le voci soffuse dei bambini che producono un'atmosfera tenue e raffinata. Tanto è valso che è caduta la penna, sulla sinistra sotto le panche della prima fila; non abbiamo tentato nemmeno di raccoglierla, né abbiamo presa l'altra nella borsa. Siamo rimasti così, impassibili, vulnerabili, aperti, con il ventre scoperto e quel buco di sabbia che lentamente si allargava dentro di noi. Perché non servono proprio gli appunti, basta aprirsi alla condivisione e non ostinarsi a delimitare il perimetro delle nostre infantili ossessioni, della nostra buca di sabbia. 
A.A.

PS. Le ultime parole le spendiamo per il Teatro dei Conciatori, teatro che "vanta" soltanto un paio di stagioni ma dove - non si sa bene perché - ancora non eravamo andati. Un piccolo teatro sì, ma non il solito "buco", o "cantina/teatro", o "quattro pareti con delle sedie da una parte", ma un ottimo spazio che offre quantomeno una "concreta possibilità rappresentativa" e ci pare di capire con un'attenzione particolare alla qualità di ciò che si offre. Da tenere in forte considerazione: sia come addetti ai lavori, sia come pubblico.


LINK UTILI:
- Teatro dei Conciatori | Sito ufficiale
- Pagina ufficiale di Facebook
- Promozioni e ridotti | Atrapalo


BUCA DI SABBIA di Micha Walczak
regia Gabriele Linari
con Tony Allotta e Sabrina Dodaro

visto al 

TEATRO DEI CONCIATORI
via dei conciatori 5, 00154 - Roma
info stagione e costi


 
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martedì 12 novembre 2013

Talenti da scoprire: da Montreal a Roma, arrivano i Suuns al Circolo degli artisti




Per quanti amano la musica, per quanti amano andare alla ricerca di novità artistiche, per tutti quegli animi curiosi che adorano immergersi a fondo nelle sensazioni, segnaliamo che venerdì 15 al Circolo degli Artisti di Roma arriva la rock band canadese Suuns. Li abbiamo scoperti nei tortuosi pomeriggi di ricerca musicale sul web, le loro sonorità si sono appiccicate alla nostra pelle, dissolte tra i pori si sono infiltrate nei vasi sanguigni, pericolosamente circolano nel corpo contaminando e alterando le percezioni, gli organi vitali hanno assunto strane tonalità di colore, lo spirito s'eleva sopra cieli mistici. Ascoltare i Suuns è un vero viaggio, vanno disattivati tutti i punti di contatto col mondo circostante, si preme play ed è come prendere un fungo magico, si cammina lungo un sentiero boschivo dal terreno soffice e procedendo si assiste al mutare informe del paesaggio. Un canto o un lamento? Scivola via, la voce, la musica, sono spirali, onde, immersioni sensoriali. La loro musica non va semplicemente ascoltata, va attraversata con tutti i sensi. Atmosfere psichedeliche che permettono di fantasticare. Consigliamo di non perderli assolutamente, può essere un'esperienza. Il concerto sarà per i Suuns l'occasione di presentare il loro nuovo album "Image The Futur".

Ascolta: Suuns - Images Du Future (2013)

 

Venerdì 15 novembre, concerto Suuns al Circolo degli artisti

I Suuns sono nati nell’estate del 2006 quando il cantante/chitarrista Ben Shemie e il chitarrista/bassista Joe Yarmush scrissero le prime canzoni. Al duo si aggiunse ben presto il batterista Liam O'Neill ed il bassista/tastierista Max Henry, a completare la line up. "Non pensavo fossimo un vera band nel primo anno" ammette Ben. Fino a quando un amico li aiutò, procurando loro uno spot al Pop Montreal 2007, dove la band si esibì nel loro primo real gig... (Leggi tutto)

 




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La lezione di Ionesco al T.Millelire: delirio a tre per interpreti virtuosi. Recensione




La lezione di Ionesco andata in scena al Teatro Millelire ci lascia spiazzati. Diventa davvero difficile poter spendere delle parole che possano essere di qualche utilità al lettore. Del resto il cosidetto Teatro dell'assurdo produce spesso questo effetto di disorientamento, mescolando la banalità della situazione alla ricchezza di significati spesso ostici da ricercate, ricchi di sfumature e critica sociale. Quando inoltre la rappresentazione ricalca quasi fedelmente la natura dell'opera, alla quale si aggiunge la bravura degli interpreti, qualsiasi parola rischia di creare incompresione e disorientare ancora di più. Sarebbe certamente fare un torto agli attori e al regista produrre una recensione che non ricalchi puntualmente ciò a cui si è assistito. Bisognerebbe fare innanzitutto un discorso molto lungo sul significato dell'opera - il che sarebbe fuori luogo e ridondante, vista la vasta letteratura critica sul teatro di Ionesco - ai molteplici significati e punti focali, al brutale rapporto che c'è tra insegnamento e apprendimento, alla distanza tra insegnante e allievo, al metaforico condurlo al rapporto carnefice/vittima. E c'è inoltre la parola, la parola che in Ionesco si spoglia di ogni significato, all'attrito emergenete tra mondo e linguaggio che conduce alla progressiva perdità di ogni conformismo comunicativo. Suono, ciò che resta; e ancora c'è la critica a una certa cultura, la denuncia politica del nazismo e tanto altro. Tutti argomenti i quali speriamo vogliate approfondire in altre sedi. Un testo caratterizzato da una struttura farsesca, spinta talvolta al grottesco, non priva tuttavia di ricadute tragiche, improvvise e inaspettate, con un colpo impensato e magico quando nessuno proprio se lo aspetta. Nonostante il dissacrante ingegno della sua costruzione, è un testo che ci appare molto legato al suo tempo, la morbosità dell'atto dell'insegnamento oggi ci appare persino capovolto, gli insegnanti che un tempo esercitavo il proprio potere attraverso la cultura sono diventati poveri cristi di fronte ad allievi sempre più sfrontati. Il rapporto carnefice/vittima esiste ancora, ma i ruoli si stanno lentamente invertendo. Come del resto il richiamo alla tremenda tragedia storica che rappresentò il nazismo, questa non ha più i caratteri forti della denuncia come poteva esserlo nel 1951. La lezione è figlia del suo tempo - sebbene ancora ampiamente rappresentata - il pubblico forse nemmeno riesce a coglierla pienamente. Chi lo fa, ne gode i frutti saporiti. 




Lo spettacolo diretto da Claudio Monzio Compagnoni e Mimmo Strati s'illumina soprattutto dell'ottima performance di Claudio Scaramuzzino, protagonista assoluto grazie ad un'interpretazione davvero virtuosa, lasciandosi andare a quello che si potrebbe quasi un esercizio di stile. La sua voce è una giostra che si muove a differenti altezze, si impenna, precipita, raggiunge velocità vorticose senza perdere la sua chiarezza, rallenta ancora morendo quasi in una stasi ritmica, poi riesplode. Segue la parabola del professore indicata dall'autore, forse ne accentua e anticipa la sclerosi psicologica, corre persino più veloce dell'autore stesso, ma ogni tentativo di individuare una forma dalla quale egli possa essersi avvicinato o allontanato sono inutili: qualunque cosa abbia fatto, che sia troppo o troppo poco, è stato fatto con qualità. Virtuosismi così non sono da tutti, la sua estasti si moltiplica col passare dei minuti, alla verve articolatoria e fonetica si aggiunge forse anche un certo grado di immedesimazione - questo forse non allineato con Ionesco, il quale era distante da un certo teatro che privilegia la mimesi realistica - spingendo dentro le pance di ogni spettatore, ormai completamente disorientato, quel pugnale che profuma di dramma vero. Un dramma comico, così Ionesco amava definire la sua opera. Forse non siamo nemmeno veramente preparati ad affrontare in veste critica questa messa in scena, così poche sono state le occasioni di assistere concretamente a La lezione - e non certo possiamo dire di aver goduto di eccellenti rappresentazioni; certi testi sono spesso i preferiti da taluni macellai amatoriali - che come unico materiale di utile confronto non possiamo che riportare le parole dello stesso Ionesco: 

Il teatro è puro gioco di parole, di scene, di immagini. Materializzazione di simboli. Liberare la tensione drammatica senza l’aiuto di nessun intrigo. Perché anche nell’assenza di un vero e proprio intreccio si può manifestare qualcosa di mostruoso, in quanto il teatro è essenzialmente rivelazione di cose mostruose... che portiamo in noi.

E ancora:

Il fine de La Lezione è quelli spingere il burlesco fino al limite estremo. Poi un leggero tocco, un movimento impercettibile, e ci si ritrova in pieno tragico. E’ un gioco di prestigio. Il passaggio dal burlesco al tragico deve avvenire senza che il pubblico se ne accorga.

Alla luce di ciò possiamo dire di aver assistito a qualcosa che ha tradotto scenicamente l'eredità del pensiero dell'autore, riportandola in maniera pressoché fedele sulla scena. Mostruoso, burlesco, tragico e con un Claudio Scaramuzzino (senza nulla voler togliere a Flavia Faloppa e Rosa Brancatella) ottimo direttore d'orchestra di un pazzesco gioco di parole senza intreccio.  
A.A.


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LA LEZIONE di E. Ionesco
regia di Claudio Monzio Compagnoni e Mimmo Strati
con Rosa Brancatella, Flavia Faloppa e Claudio Scaramuzzino

visto al

TEATRO MILLELIRE
Via Ruggero de Lauria 22 - Roma
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mercoledì 6 novembre 2013

L'utopia (im)possibile di Simone Weil: Di nessun partito al Teatro Stanze Segrete. Recensione

Democrazia, libertà, giustizia, verità. Un tappeto di fogli copre il pavimento del Teatro Stanze Segrete. Sono citazioni di Simone Weil e quelle quattro parole che nel gioco di specchi riflessi negli specchi si ripetono infinitamente. Parole il cui senso si è perso, come ogni cosa di cui si abusa, ridicolizzate dal dibattito politico per far presa sul pubblico. Democrazia, libertà, giustizia, verità. Avremmo voluto alzarci, gridare, discutere, partecipare, dimenticandoci in realtà che quello era un testro scritto da recitare pressoché a memoria e non una vera tavola rotonda. Marta Scelli ci guarda, parla, facciamo sì con la testa in una viva partecipazione e condivisione di quello che era il pensiero di Simone Weil. A guardarlo bene da vicino è un qualcosa di elementare, qualcosa però che le nostre menti vulnerabili non sanno cogliere - o non vogliono cogliere - tanto insicure da preferire la dominazione e lo schiavismo del pensiero ad una vera libertà. Un'ora di spettacolo è persino poco, un assaggio, vorremmo restare nel salottino dove la nostra immagine si moltiplica a dismisura nella moltitudine di specchi, perché è confortevole trovare conferme nel pensiero filosofico della Weil, attento, pesato, non fine a se stesso. E tutto ha il suono di un delicatissimo "Ma se..." Se non esistessero i partiti? Se abolissimo i partiti? Sembra la solita trovata populistica, qualcuno acclamerà, ma non assistiamo a strepiti, berci, grezze voci graffiate che osannano non si sa quale guru a loro messaggero senza sapere nemmeno per cosa stanno lottando. Qui è un qualcosa di più sottile ed alto, qualcosa che ha il beneficio della riflessione, di quelle riflessioni scolpite perfettamente intorno ad una tesi e che da qualsiasi angolazioni le guardi sembrano perfette. Si arriva al fine ultimo, la soppressione dei partiti, attraverso un processo del pensiero ineccepibile, non certo per uno sfogo di rabbia che combatte un sistema con le stesse armi del sistema. Democrazia, libertà, giustizia, verità: secoli e secoli di riflessioni, pensieri, astrazioni, alla ricerca del bene, di un punto fermo, di una qualche valida certezza, un passo avanti che consentisse di non arretrare; tutto è stato invece vanificato dall'era dei venditori di massa, dei predatori di masse nel regolare esercizio della vita democratica in nome della libertà di scelta, perché laddove c'è la volontà di massa c'è giustizia e verità. E un senso non si trova più, nemmeno ad elemosinarlo. Dai microfoni dei talk show tutti hanno da mettere qua e là parole confuse condendole con i quattro ingredienti magici. 


Lo spettacolo "Di nessun partito" pone sotto la lente di ingrandimento la nostra realtà falsificata, ce ne mostra le contraddizioni, ricordando le parole lontane di una pensatrice morta davvero troppo giovane, ma che ci ha lasciato un'eredità imponente. Per alcuni sono conferme di cose già pensate, per altri primi passi per procedere verso una riflessione più profonda sulla nostra società. Tanta carne al fuoco, eppure ben selezionata per costruire quel filo logico che consente allo spettatore di non perdere l'orientamento. Uno spettacolo apparentemente per menti illuminate e colte, ma i concetti sono universali e capibili da tutti. Dipende solo dal grado di apertura alla verità di ognuno, da quanto si è pronti a mettere in discussione, dalla volontà di concentrarsi sulla contrapposizione tra mezzo e fine. I partiti sono certamente un mezzo per esercitare la vita democratica,  eppure assistiamo continuamente ad un rovesciamento, i partiti stessi diventano il proprio fine: attraverso la propaganda i partiti operano una pressione collettiva sul pensiero finalizzata alla persuasione, il cui obiettivo è la crescita del partito e quindi la sua autoperpetuazione. Tutto vero - benché anche sul concetto di verità si possano aprire ampi margini di discussione - eppure sembra davvero un'utopia irrealizzabile quella della Weil, è molto più facile farsi persuadere che non esercitare una libertà concreta. Rincuora però sapere che qualcuno ci ha pensato, che qualcuno ha tentato un passo verso il bene, che altresì un regista e un'attrice abbiamo deciso di "teatralizzare" quelle parole e trasmetterle. Il teatro stesso oggi è diventato un fine, il fine ultimo del teatro è il teatro stesso, mentre dovrebbe - ed è - anch'esso un mezzo con cui, attraverso un linguaggio artistico e spesso accattivante, mandare un messaggio; un mezzo attraverso il quale rivelare l'uomo. Di nessun partito è dunque il teatro che torna a farsi "mezzo per il bene" e lo fa utilizzando anche gli strumenti tecnici (come le installazioni video di Riccardo Palladino), i quali mai diventano il verbo dominante ma solo un mezzo che renda più piacevole la fruibilità.
Marta Scelli (molto emozionata) presta la sua voce alle parole di Simone Weil, le rievoca come se stesse interpretando un personaggio, come se provasse a scovarle in quel preciso istante in un cassetto remoto della memoria. Ci chiedevamo il senso del tentativo di interpretazione di un testo che vuole solo omaggiare, trasmettere, diffondere, perché non si è tenuto un tono distaccato e saggistico, o magari persino propagandistico. Forse la chiave della regia di Massimiliano Giovanetti è da ritrovare nella restituzione di un senso alle parole, perciò è stato necessario spogliarle da ogni retorica politica, da ogni spinta a fare del proselitismo, arrivare quasi a renderle impronunciabili, incerte perché incerto è il loro senso, tornare ad emetterle come un complesso di suoni nuovi e ancora informi alla ricerca di un significato, un timido vagito appena riconoscibile: democrazia, libertà, giustizia, verità. Forse la scelta più rischiosa, ma ripensandoci quella più protesa verso il bene, perché se così non fosse stato, tanto valeva riversarsi nelle piazze a far compagnia agli urlatori. Utile.
A.A.


DI NESSUN PARTITO
liberamente tratto dagli scritti di Simone Weil
regia Massimiliano Giovanetti
con Marta Scelli
Visual Riccardo Palladino
Luci Gabriele Boccacci
Ufficio Stampa: Rocchina Ceglia - rocchinaceglia@gmail.com

dal 5 al 10 novembre presso

TEATRO STANZE SEGRETE
Via della Penitenza 3 (Trastevere) - Roma
tel. 06.6872690/ 3389246033




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lunedì 4 novembre 2013

Riflessi della settimana teatrale: consigli e sconti.

C'era un momento che ci piaceva tanto lo scorso anno, quello dei consigli settimanali. Poi gli impegni, il tempo mancante, la stagione finita ci hanno spinto al silenzio. Ora la stagione è ripartita, gli impegni non sono terminati, ma ci sono tanti spettacoli che mettono l'acquolina, si sente tintinnare l'abbondante pioggia e c'è necessità di un buon ombrello, dunque si rende recessario rispolverare questa rubrica. Dove trovare riparo questa settimana? E a quali prezzi? Le proposte sono interessanti e le offerte davvero invitanti. Spesso strizziamo l'occhio al nuovo, ma certamente il vecchio rappresenta un punto di riferimento imprescindibile. Soprattutto in fatto di ombrelli. Perciò per prima cosa si butti un occhio al Teatro Ghione, dove l'instancabile Giorgio Albertazzi si fa portavoce delle Lezioni Americane di Italo Calvino: connubio troppo ghiotto per rinunciarvi. Al Teatro Vittoria, come ormai succede da 30 anni, i meccanismi delle prove di una sgangherata compagine teatrale sono svelati in Rumori Fuori Scena di Michael Frayn, riuscitissimo spettacolo della Compagnia Attori & Tecnici, ormai una tradizione irrinunciabile. Come irrinunciabile per gli amanti della danza - e non solo - è Alchemy, il nuovo spettacolo dei Momix, compagnia di ballerini/illusionisti fondata dal coreografo americano Moses Pendleton per i quali non servono certo le presentazioni, ma soltanto segnalare il luogo della prossima suggestione: il solito Teatro Olimpico, dal 5 novembre al 1 dicembre. E ancora danza, con un classico del balletto riletto in un'ottica davvero insolita e rivoluzionaria: mette davvero molta curiosità Il Lago dei Cigni versione gay che sarà in scena al Teatro Argentina dal 6 al 10 novembre, certamente la ciliegina alla settimana teatrale; una rilettura che fonde diversi temi, quali il rapporto tra i sessi, dell'omofobia, un continente nero devastato dall'Aids, l'influenza forse della danza popolare Africana.
Messi da parte questi spettacoli, i quali sono quelli che recano il certificato di garanzia - ma anche un ombrello buono può rompersi a volte - facciamo un giro nelle viuzze più nascoste, meno trafficate, più ricercate. Ci vengono incontro ambulanti con ombrelli di emergenza, ci assicurano che sono ombrelli buoni, tentar non nuoce: ci si ripara in qualche modo o ci si becca il raffreddore. Non vogliamo ammalarci, così andiamo nel raccolto spazio/salotto del Teatro Stanze Segrete, dove Massimiliano Giovannetti dirige Marta Scelli in Di nessun partito, tratto dagli scritti di Simone Weil, la quale poco prima di morire, nel 1943, scrisse "Il manifesto per la soppressione dei partiti politici": lo spettacolo è un omaggio al pensiero della filosofa e prova a restituire un senso a parole come verità, giustizia, libertà. Raccogliamo il suggerimento di Rodolfo Di Giammarco di Repubblica per lo spettacolo La Grande Guerra - Eppure si rideva al Teatro Ambra alla Garbatella, ovvero la guerra vista attraverso gli occhi e la sensibilità dei poeti che l'hanno vissuta, un torrente che trascina detriti di cultura, storia, poesia: lanciatevi. Si ride con un classico del Teatro dell'assurdo al Teatro Millelire: Mimmo Strati dirige La Lezione di Ionesco. Ce ne parlano bene, ma i nostri occhi non possono testimoniare, dobbiamo fidarci? Lo sfascio di Gianni Clementi, una sorta di Romanzo Criminale a teatro, in scena fino al 17 novembre al Teatro Sala Umberto. Potremmo fermarci qui, ma il nostro bambino interiore ci tirà la giacca piagnucolando "e noi? e noi? e noi? mica possiamo beccarci tutta la pioggia noi!". Come biasimarlo, è forse il momento più importante: attori e marionette al Teatro Mongiovino per La voce della luna, il quale racconta di un Pulcinella innamorato della Luna; al Teatro Furio Camillo, domenica 10 alle 11.00, ci si emozionerà con Storia d'amore di un paio di scarpe, uno spettacolo di teatro di narrazione e piccolo circo per bambini con elementi di danza, acrobatica, giocoleria e teatro di figura. Ora sì, siamo sazi (e asciutti), non resta che augurarvi
Buon Teatro.  
 A.A. 


ABBIAMO PARLATO DI:
  • Lezioni Americane, di I.Calvino, con Giorgio Alberttazzi | Teatro Ghione, fino a 17 novembre (ridotto! €20 €12, info e prenotazioni)
  • Rumori fuori scena, di M.Frayn | Teatro Vittoria 5 - 17 novembre (€20-€26, info e prenotazioni)
  • Alchemy (Momix) | Teatro Olimpico 5 novembre - 1 dicembre (da €18, info e prenotazioni)
  • Swan Lake, coreografie di Dada Masilo | Teatro Argentina nell'ambito de Romaeuropa festival dal 6-10 novembre (€14-€36, info e prenotazioni)
  • Di nessun partito, di S. Weil, regia M.Giovannetti | Stanze Segrete 5-10 novembre (€10-€13, info e prenotazioni)
  • La Grande Guerra - Eppure si rideva, regia Lorenzo Costa | T.Ambra alla Garbatella 5-10 novembre (best price! €13.80 €7.40, info e prenotazioni)
  • La lezione, di E. Ionesco, regia Mimmo Strati | Teatro Millelire 5 - 10 novembre (€12, info e prenotazioni)
  • Lo sfascio, di Gianni Clementi | Teatro Sala Umberto fino al 17 novembre (ridotto! €23 €15.50, info e prenotazioni)
BAMBINI:
  • La voce della luna, Teatro Mongiovino 9 e 10 novembre (ridotto! €7, info e prenotazioni)
  • Storia d'amore di un paio di scarpe, Teatro Furio Camillo, domenica 10 ore 11.00 (ridotto! €6, info e prenotazioni)

 
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martedì 29 ottobre 2013

Della prima volta al Teatro Kopó : il calapranzi e l'opportunità di sbagliare

Il 23 settembre 2013 a Roma, in Via Vestricio Spurinna 47/49 (zona tuscolana), è stato inaugurato un nuovo spazio teatrale, il Teatro Kopó. Lo abbiamo scoperto tardivamente, un mese dopo, mentre si preparava ad aprire le porte al pubblico per il secondo spettacolo della stagione, Il Calapranzi di H.Pinter. Non potevamo che accorrere, perché un nuovo teatro è sempre un evento lieto, fino a quando non scopri che più che un teatro è un nuovo "affittacamere". È la realtà odierna, almeno un nuovo piccolo teatro off ogni anno, l'entusiasmo per qualcosa che sembra essere un piccolo foro di luce sul grande telo scuro che circonda le nostre vite, poi la solita delusione nello scoprire che tutti - ma proprio tutti - possono pagare una sala e offrire un qualcosa di vagamente teatrale. Ma all'inizio l'entusiasmo della nuova scoperta è forte, così ancora una volta siamo partiti con grande slancio, con grandi aspettative, col doppio intento di vedere lo spettacolo e di respirare questo nuovo spazio. Il primo impatto trasmette l'idea di un qualcosa di vivo, fresco, dinamico, moderno nel modo di comunicare e accogliere. Così quel piccolo foro che ha lasciato filtrare un lumicino di luce ha attraversato il nostro sguardo, abbiamo provato a saggiare l'intensità della sua luce sulla nostra pelle, ci è parso caldo, convincente, non illusorio, un piccolo bagliore quasi impercettibile ma deciso. Quel luccichìo è diventato a tratti abbagliante mentre parlavamo con Francesca Epifani, la nemmeno trentenne direttrice artistica: il piccolo Teatro Kopó è la sua più grande scommessa. Ci ha parlato della politica della sua direzione, degli obiettivi, del magma caotico che caratterizza il panorama teatrale odierno, degli "affittacamere", dell'opportunità di sbagliare. Ci trova d'accordo, su molte cose, facciamo sì con la testa e intanto un sorriso ci si stampa dentro, perché quello che tante volte abbiamo pensato e di cui ci andiamo convincendo giorno dopo giorno, qualcuno ha avuto il coraggio di metterlo in pratica. È presto per cantar vittoria, è presto per dire partiamo dal Kopó, ne abbiamo visti molti nascere e non avere la determinazione di portare avanti quello che, forse solo a scopi pubblicitari, millantavano inizialmente. È pur vero però che spesso abbiamo a che fare con direttori se non vecchi quantomeno andanti, già in una parabola discente - l'apertura di un teatro è un tentativo di aggrapparsi all'apice - le cui frenetiche spinte ideali sono soltanto dei meri ricordi di gioventù. In questo caso ci troviamo di fronte all'idealismo giovanile nel suo pieno fervore, anche ad una certa ottusità che sempre contraddistingue gli slanci giovanili. Noi stessi lo siamo e dunque rilanciamo: siate ottusi! Indietreggiare non serve più, forse il fondo è toccato, forse no, se è stato toccato allora si potrà finalmente risalire. Il coraggio di tentare, l'opportunità di sbagliare.

Si fa sala, si entra, ci accomodiamo, il messaggio di sala è delizioso e simpatico, pensiamo al verbo "to play", entrano gli attori. Giovani anche loro, è la loro opportunità di sbagliare. La struttura scenica è semplice: due letti ai lati, finte mattonelle alle pareti, il calapranzi al centro. Forse non del tutto claustrofobica e asfissiante come ti aspetteresti, visto che le mattonelle donano un lieve tocco di vivacità alle pareti e il palco rialzato per chi è in prima fila restituisce un effetto quantomeno di un primo piano, anziché di un seminterrato. Tuttavia la piccola sala contribuisce a comprimere l'atmosfera e, specialmente nei silenzi, si avverte una tremenda vicinanza al clima dell'opera e alla condizione dei due personaggi. A tratti si ha l'impressione che qualcosa debba esplodere da un momento all'altro, la tensione di Ben e Gus riesce a filtrare in sala e si trattiene il fiato. Il primo improvviso blu che dal calapranzi si allarga nel buio è un lacerante segnale d'allarme.
Piero Grant (Ben) e Angelo Sateriale (Gus) ci sono piaciuti, anche se emergono le loro differenti caratteristiche: Piero Grant più a suo agio nei panni pinteriani, Angelo Sateriale rinchiuso forse in un recinto (registico) troppo stretto che ha imbrigliato la sua libertà espressiva. Sebbene le differenze tra i due attori rispecchino quelle dei personaggi, appare evidente che non sempre riescono a toccarsi, incontrarsi, forse anche perché concentrati a percorrere i binari della regia di Alessandro Gorgoni che li costringe a percorsi obbligati e movimenti ripetitivi (seppur di qualità diversa), quasi fossero due automi e non due esseri umani. Un'idea che sacrifica il naturalismo per spingere verso un tentativo di concettualizzare il contenuto dell'opera di Pinter, la quale diviene così più astratta e meno veritiera, probabilmente anche meno penetrante. Dopotutto però non nuoce alla salute come altre cose che vediamo, è una possibilità, un'indagine, una piccola variazione su un testo percorso da tanti e che naturalmente si presta ad essere riletto. Va bene dunque tentare, esplorare, confrontarsi con testi di difficile rappresentazione, perché va bene anche e sopratutto sbagliare, come ci dice saggiamente Francesca Epifani. Potrebbe già diventare il piccolo motto della stagione teatrale appena iniziata, un cambio sostanziale di prospettiva. Oggi che il perfezionismo di plastica ha così invaso le nostre vite, qualcuno ci ricorda che sbagliare è soprattutto un'opportunità da concedere. Ben venga dunque il Teatro Kopó e che sia più di un semplice foro di luce.
A.A.

LINK UTILI


IL CALAPRANZI
di H. Pinter
Regia Alessandro Gorgoni
con Angelo Sateriale e Piero Grant
Ass.Regia Concetta Bruni
Musiche Flavia Ripa
Scenografie Giuseppe Grant, Francesco Pica
Organizzazione Luna Abbondandolo
 

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