giovedì 23 febbraio 2012

Il club dei cinque al Teatro Manhattan dal 22 al 26 febbraio.



Sarà in scena fino al 26 febbraio al Teatro Manhattan di Roma "Il club dei cinque", il nuovo spettacolo diretto dal giovane Gabriele Cometa, già regista di Oscuri abbracci, Tre giri di giostra, Epido Re, Stai con me..Dentro il tuo silenzio e A piedi nudi nel parco.
Ispirato al film cult degli anni '80 The Breakfast Club, è la storia di cinque adolescenti diversi tra loro (il secchione o "nerd", lo sportivo, il criminale, la principessa e la ragazza dark/disadattata) costretti a condividere lo spazio dell'Aula Magna di un liceo per scontare una punizione. "Chi sono io?" è il titolo del tema che dovranno svolgere. Una domanda cruciale per gli adolescenti di ogni epoca, che spesso non trova risposta se non specchiandosi e scoprendosi nell'altro: è nella conoscenza reciproca che si trova la risposta a noi stessi. E' intorno a questo tema che ruota la pièce. La lunga convivenza forzata permetterà infatti ai giovani, dopo le iniziali tensioni, di confrontarsi e conoscersi reciprocamente, trovando nelle diversità individuali delle comuni problematiche, raggiungendo così una nuova consapevolezza di sé e degli altri.

Pur riportando fedelmente la struttura del film, Gabriele Cometa ha compiuto un duplice sforzo: non solo passare dal linguaggio cinematografico a quello teatrale, ma svolgere un lavoro di ricerca musicale e culturale per ambientare il testo in Italia.
Come una vecchia fotografia, gli anni '80 rivivono nelle angosce, negli abiti, nelle musiche, nelle stravaganze, nella ricerca senza filtri. Anni che segnano un passaggio epocale, l'ultima decade prima che il virtuale faccia il suo ingresso nella vita dell'uomo creando barriere; ed è significativo che Gabriele Cometa abbia voluto mantenere inalterate le lancette del tempo perché oggi le dinamiche sono diverse, le angosce non vengono più affrontate, ma rinchiuse in uno schermo: ognuno il suo, immobile, sconosciuto. Come a voler dire che è guardandoci negli occhi senza filtri che possiamo davvero (ri)conoscerci.

E certamente i cinque giovanissimi attori hanno dovuto intraprendere un reciproco viaggio per riscoprire se stessi negli altri. Occasione che hanno saputo cogliere ricercando e portando sulla scena una freschezza adolescenziale molto naturale, trasmettendo ansie e impacci privi dell'irrequietezza barbara, frenetica, tipica invece degli anni 2000. Una naturalità che tuttavia poteva essere ancora più approfondita in alcuni passaggi emotivi, sfumando alcune situazioni evolutive della dinamica dei personaggi.

La ristrettezza dello spazio penalizza un po' la messa in scena, studiata per creare un'iniziale distanza e tensione tra i personaggi, un triangolo d'ostilità sciolto poi dalle reciproche confessioni e dalla rottura delle linee. Un effetto che avrebbe certamente giovato di uno spazio più ampio. Nonostante questo il messaggio c'è, arriva ed è importante, ovvero che "ognuno di noi è un cervello, un atleta, una disadattata, una principessa e un criminale". Da raccontare agli adolescenti di oggi.

Recensione a cura di Alessandro Giova




IL CLUB DEI CINQUE
regia di Gabriele Cometa
Con Pierpaolo Laconi, Elisa Rivelli, Simone Tromboni, Federica Siri, Andrea Riso

Ufficio Stampa: Rocchina Ceglia

dal 22 al 26 febbraio al

TEATRO MANHATTAN
Via del Boschetto 58, Roma
Ore 21.00 – domenica ore 18.00
Biglietti: €10 - Tessera associativa €2.00

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venerdì 17 febbraio 2012

Tracce

(nell'immagine: Natura morta di Fazio Lauria)


Voglio svegliarmi di buon mattino
quando tutto ancora riposa
parzialmente, si stiracchiano i gatti
il sole tende un raggio ai ciuffi,

veder come compatta resiste
la neve, sui tetti e negli angoli
mentr'è già, quasi, primavera
si preparano pollini e mimose,

trovarsi lì, punto di mezzo
nel mezzo d'una mezza stagione
noce di buio nell'universo di luce
frammento di tempo nell'eterno divenire.

Matteo Di Stefano

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giovedì 16 febbraio 2012

Mumble mumble, Emanuele Salce si confessa al Teatro Belli



Non è facile per nessuno crescere nell'ombra. Spettri, che s'appoggiano spesso su spalle giovani e l'accompagnano, le seguono, senza abbandonarle nemmeno in età adulta. A volte sono le aspettative che vengono proiettate su di noi, altre sono l'ombra imponente dei nostri cari. Scrollarsele di dosso per muovere i propri passi soli è complicato.
È stato certamente così per Emanuele Salce, figlio naturale di Luciano Salce, adottivo di Vittorio Gassman il quale sposò sua madre. Due figure giganti, che in qualche modo lo hanno accompagnato ma anche un po' tormentato. E diventa complesso cercare di essere qualcosa di diverso del "figlio di". Soprattutto in un paese in cui l'ereditarietà del mestiere è pratica diffusa. Emanuele Salce ha provato a resistere alla tentazione di intraprendere la vita artistica, eppure - come Wilde insegna - l'unico modo per liberarsi di una tentazione è cedervi. Ed Emanuele Salce ha ceduto, è diventato un artista, un attore - sebbene lui stesso sostiene di non sapere se sarà il suo mestiere definitivo - ha percorso il sentiero scavato da quei padri alti come montagne. A suo rischio e pericolo, perché sempre ci sarà chi si lascia andare ai paragoni, o qualche maligno che sosterrà la tesi della "strada spianata".
Due figure che in un certo senso lo hanno guidato, trascinandosi assieme al suo percorso di uomo. Ed è anche, forse, il tentativo di liberarsi di un peso Mumble Mumble, lo spettacolo di Emanuele Salce e Andrea Pergolari in scena al Teatro Belli fino al 19 febbraio. Salce stesso è il protagonista, con un racconto molto intimo e coraggioso, una pubblica confessione dalla tragica comicità. Sogni, paure, ansie dell'Emanuele Salce uomo e attore, il quale attraverso una narrazione sospesa tra amore e morte si libera, si mostra, si spoglia di intime ossessioni. Ricordando sì, ma prendendosi i suoi spazi, i suoi momenti, facendosi bagnare dal fascio di luce che ironicamente finge di non saper prendere: non come lo faceva suo padre. Sa perfettamente che qualcuno avrà pensato almeno una volta a Vittorio o Luciano, ma non teme quelle ombre, scherza e sorride con tagliente ironia. Gioca abilmente e freneticamente - modellando a suo piacimento le battute di un testo corrosivo e dall'intenso crescendo drammaturgico - con i ricordi, usando la propria voce, anch'essa pulita e profonda, pronta ad aprire una finestra, a lasciar scrutare un ripostiglio di vecchie immagini; pronta a raccontare, schiettamente, spietatamente, a far sobbalzare di risate il nutrito pubblico sulle poltrone; pronta a lasciarsi andare facendo i conti con l'intimo, l'arte, la vita. Nel tentativo di conciliare l'attrazione per una verità assoluta e il contatto con la relatività dell'esistente, riflessioni sulla morte ed europei di calcio, citazioni letterarie e rocambolesche avventure australiane, prima di andare in scena con un'azzardata versione per attore solo de "I fratelli Karamazov", nella solitudine di un camerino improvvisato in una piccola provincia italiana, in attesa che si faccia vivo almeno il primo spettatore. A far da contraltare l'ironico e simpatico personaggio/spettatore Paolo Giommarelli, ora complice ora provocatore.
Ha ceduto alla tentazione Emanuele Salce, e in questo non troviamo assolutamente niente da recriminare. Figlio, orfano, erede d'arte degno di applausi.

Recensione a cura di Alessandro Giova


MUMBLE MUBLE
(Ovvero confessioni di un orfano d'arte)
di Emanuele Salce e Andrea Pergolari
con Emanuele Salce e Paolo Giommarelli
Ufficio Stampa: Rocchina Ceglia

TEATRO BELLI
Piazza Sant'Apollonia 11/a, Roma
dal 14 al 19 febbraio.
Orari: da martedì a sabato ore 21.00 - domenica ore 17.30
Biglietti: intero €18.00 - ridotto €10.00 con Atrapalo (prenota online e paga in biglietteria)


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lunedì 13 febbraio 2012

Cyrano.. dacci una mano, Teatro delle Muse. 9-21 febbraio

Cyrano.. dacci una mano
di Mimmo Strati e Alberto Bognanni

dal 9 al 21 febbraio al Teatro delle Muse


Chi, almeno una volta, ha avuto la fortuna - o la sfortuna - di organizzare uno spettacolo teatrale, può ben comprendere quanto possa essere complicata la sua realizzazione. Un mestiere giocoso, appagante per certi versi - molto personali e poco monetari - ma che si rivela mostruosamente faticoso a volte. E' così per i professionisti; se poi a metter su uno spettacolo è un gruppo di mestieranti e non del tutto improvvisato, l'impresa è delle più tragicomiche. Un gioco che può divenire frustrante per chi vi partecipa, ma che potrebbe altresì allietare l'umore di chi si trovasse ad osservare. Se poi, si sceglie di mutare una tale ipotesi in un soggetto teatrale, mettendo degli osservatori - opportunamente paganti - in sala, il risultato è quello di una brillante commedia.
Questo è, per l'appunto, "Cyrano... dacci una mano", la nuova commedia di Mimmo Strati e Alberto Bognanni, già reduci in anni recenti del successo "Romeo e Giulietta paccavano eccome".

Nella periferia di Roma un prete ha deciso di far rivivere un teatro abbandonato. Metterà in scena "Cyrano De Bergerac". Gli unici attori che trova sono un elettricista proletario con poca voglia di lavorare, un aggressivo muratore calabrese, una studentessa timida con poca fiducia in se stessa, due attricette squattrinate e un giovane attore televisivo. A dirigere lo sgangherato gruppo Orlando Orlandini (il buon Cesare Cesarini), un vecchio attore ormai caduto in disgrazia, il quale non ha certo perso il fuoco per quel sacro luogo qual è il teatro, che "tutto ti dà, o tutto ti toglie".
Una parodia intelligente e acuta del "Cyrano De Bergerac", che alla spiccata comicità accompagna un'attenta sottolineatura degli aspetti più profondi della famosa commedia. Grazie ad una scrittura scoppiettante ed incalzante, alle esilaranti gag comiche, ad una caratterizzazione eccellente ed equilibrata dei personaggi, Strati raggiunge il duplice scopo di donare risa e rispolverare un classico della letteratura teatrale. Una pièce la quale, come accade per altri intramontabili classici, soffre l'imbarbarimento di una parte del pubblico.
Lavoro che offre la possibilità di gustare del momento delle prove, di poter scrutare ciò che spesso rimane privilegio degli addetti ai lavori, ovvero tutti quegli esercizi di immedesimazione ed esplorazione che sono frutto di un percorso di un attore. Un percorso che deve portarlo ad essere veicolo di poesia, fino a saper "soffiare dentro un'anima". Lavori emotivi, esercitazioni, scioglilingua - uno dei momenti più sublimi - momenti divertenti per il pubblico non teatrale, che si fanno persino impareggiabili per chi in quegli esercizi rivede se stesso.

Un teatro che mette a nudo se stesso, attraverso cui sottolinea e grida il proprio stoicismo: una cultura che non s'arrende, in continua lotta per salvare se stessa e i propri spazi. Ci voleva una bislacca e improbabile compagnia alle prese con Cyrano per ricordarcelo. Non a caso nel testo spunta anche un riferimento al Valle Occupato.

In sintesi, uno spettacolo godibile e mai noioso, in grado di far ridere garbatemente. Un imperdibile Mimmo Strati, circondato da un vivace gruppo di giovani attori, bravissimi a saper passare da momenti di vita reale ad altri di finta goffaggine attoriale: perché soltanto una cosa può essere più difficile del recitare bene, ovvero il fingere di recitare male.

recensione a cura di Alessandro Giova

Cyrano … dacci una mano
Di Mimmo Strati e Alberto Bognanni
Regia Mimmo Strati

Con Cesare Cesarini, Titti Lanzetta, Ludovica Leo, Maia Orienti, Giuseppe Quinci, Stefano Scaramuzzino, Mimmo Strati, Francesco Trifilio

Scene: Anna Monia Paura
Costumi: Gisa Rinaldi
Luci e Suoni: Toni di Tore
Ufficio Stampa: Rocchina Ceglia

Teatro delle Muse
Via Forlì 43 – Roma
Tel 0644233649 – 3939093042
Dal 9 al 21 febbraio
Lunedì-martedì, giovedì-veberdì h. 21.00/ sabato h. 17.00 e 21.00/ domenica h. 18.00
Mercoledì riposo
Biglietti: Intero € 22,00- ridotto €16,00 over 65; € 13,00 cral

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giovedì 9 febbraio 2012

I fili di Penelope, atto eroico al Teatro Keiros.


Una ragnatela di corde pende sullo sfondo, i suoi fili scivolano sul palco passando vicino alle tre sedie disposte sul palcoscenico: due sono vuote, sull'altra siede Penelope. Attende, Penelope, il ritorno dalla guerra di Ulisse. Con questa immagine, e sulle note della “Jazz Suite nr.2” di Shostakovich, arrangiata alla fisarmonica da Roberto Mazzoli, inizia l'intenso monologo di Penelope, la quale da vent'anni attende il ritorno del suo eroe tessendo e disfacendo un mantello ricco di avventure. Non c'è però nessuna tela da tessere, il solo telaio è quello delle mani di Tiziana Scrocca che disegna un labirinto di storie nell'aria del teatro Keiros: parlano di solitudine, attesa, tempo che passa senza che di Ulisse si abbiano notizie. Sono dita abili quelle di Penelope, ondeggiano nel suo racconto come se dovessero uno ad uno tirare fuori dai nostri occhi i fili delle nostre nostalgie.

Fili sottili, quelli che legano attore e spettatore, i quali insieme vanno formando quel ricco mosaico di storie che Penelope tesse sul suo mantello, e che potrà finire soltanto al ritorno di Ulisse. E' solo il mantello che la distoglie dalla solitudine, uno stratagemma per ingannare quell'infame che la notte bussa alla porta chiedendo “dov'è Ulisse?”. E noi siamo lì, a condividerne gli istanti interminabili, lo sgomitolarsi infinito del tempo che passa negli occhi di Penelope fino al tanto atteso ritorno: ma Ulisse non è quell'eroe le cui gesta sono narrate sul mantello, è un uomo spento, smunto, silenzioso, che porta nel cuore l'orrore della guerra. Questa è una storia che non parla di gesta straordinarie, ma è un racconto tentato di diventare qualcos'altro: ammonimento al nostro tempo, inno alla pace che rigetta la guerra. “La guerra è brutta. Ci si abitua più facilmente alla violenza che al rispetto. Gli eroi sono un'illusione”, questo è ciò che va ripetendo Ulisse, ormai retrocesso a uomo comune distrutto nell'animo, simbolo e bandiera sbiadita di un destino comune a molti soldati. Penelope e Ulisse non sono altro che una metafora, c'è sempre in qualche parte del mondo una guerra, un Ulisse che parte ed una Penelope che attende, dei fili con cui riempire l'assenza: non ci sono eroi da portare in trionfo, soltanto orrore e violenza, nostalgia e solitudine, a cui possono opporsi, come unici strumenti di difesa, immaginazione e fantasia. Interessante è stata, a tal fine, la scelta di dare al personaggio un'impronta più popolana attraverso l'utilizzo del romanesco, che abbatte le barriere della poesia e dona un maggior carattere di verità alla narrazione.
E non ultimo, i perfetti arrangiamenti polistrumentali di Roberto Mazzoli, che contribuiscono in maniera determinante a creare un'atmosfera emotivamente penetrante. Un ponte lega note e parole, musica e poesia, su cui si intrecciano e viaggiano le emozioni. Un connubio ben studiato per dare forza alle evocazioni, forma concreta alla poesia e alla narrazione. Non c'è sentimento, parola, azione che possa realmente prender vita senza un suo corrispondente musicale: e qui troviamo davvero un'interdipendenza attententamente ricercata al fine di creare un legame indissolubile ai fini rappresentativi.

Uno spettacolo coinvolgente e profondo, già vincitore dei premi Ermo Colle di Parma e Le Voci dell’Anima di Rimini, in grado di raggiungere gli strati emotivi più intimi e nascosti servendosi spesso di un tono ironico e giocoso. Tanti sono gli spunti di riflessione, molti i fili che si poggiano sul cuore da cui possiamo iniziare a tessere il nostro personale mantello, immaginare qualcosa di diverso, un differente destino o una rinascita. Un mantello su cui narrare magari degli ottimi Tiziana Scrocca e Roberto Mazzoli, o di molti altri ancora, i quali ancora compiono quotidianamente un gesto eroico: fare teatro, farlo bene.


recensione a cura di Alessandro Giova


I Fili di Penelope
Di e con Tiziana Scrocca
Musiche dal vivo Roberto Mazzoli
Scenografia Franca D’Angelo
Supervisione registica Chiara Casarico

Ufficio Stampa: Rocchina Ceglia

Teatro Keiros
Via Padova 38/a (zona Piazza Bologna)
Dall’ 1 al 12 febbraio
Dal lunedì al sabato ore 21
domenica ore 18
Biglietti. Intero 15.00 – Ridotto 10.00 (Prenotalo online e paga in biglietteria)– Per gruppi di oltre 8 persone 8.00

Info e prenotazioni: tel: 0644238096
email:teatrokeiros@gmail.com

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sabato 4 febbraio 2012

Il senso ultimo di un autoritratto

(nell'immagine: Il mimo di Mauro Colombo)



Dare forma al sono
non so.
Non esisto.

Ho un corpo,
una faccia,
un sorriso,
una lacrima,
ma vuoto è lo specchio.

Non c'è vita al di là
del recinto.

Noce d'argilla,
goccia di sudore
che scioglie il cerone

Voce,

vibrazione che colma
lo spazio.

Dove mi vedo
se non qui a respirare
la luce tagliente, dove
se non qui a sentire
nascere e morire
una vita.

E Sono,
finché resto qui,
nel recinto di luce.

Matteo Di Stefano
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