venerdì 30 aprile 2010

Le farfalle adorano i lillà


Le farfalle adorano i lillà. Ce n’era un plotone da 10 in frenetica estasi danzante intorno a due cespuglietti. Tutte uguali: nere rigate d’arancio. Da tempo si vedevano solo farfalle bianche nei prati. Una farfalla colorata era un evento che destava stupore. Ora dieci tutte insieme s’ubriacavano dei lillà. Una cosa fantastica. Hanno paura, battono l’ali e s’allontanano ad ogni passo d’uomo. Sanno che l’uomo, brutto e rozzo, ammira la bellezza e vuol farla propria catturandola. La imprigiona in una bacheca con una spilla e un etichetta, pavoneggiandosi come se la bellezza di quei colori fosse sua. Le farfalle questo lo sanno bene e fuggono. Non importa se le intenzioni dell’uomo in questione siano buone o malsane. Nel dubbio danno un colpo d’ala e s’alzano in cielo, si posano sui rami alti, troppo per chi non ha ali per volare.

Tutte uguali, tutte della stessa famiglia. Hanno gusti anch’esse: ad ogni colore, ad ogni riflesso è associato un fiore. E le farfalle nere e arancio adorano i lillà. Le bianche i fiorellini selvatici, elisi, che s’alzano di poco dai prati. Infilano la lunga proboscide e succhiano il nettare: è il loro modo di far l’amore. L’uomo non può saperlo come deve essere fare l’amore con un fiore, ma basta osservare la danza gioiosa di quei fragili esserini volanti per condividerne l’ebbrezza. Che sapore avrà un lillà? A sentirne la fragranza invadere l’aria si direbbe soave, dolce, come nessun vino può eguagliare. E sporche di nettare s’alzano un instante, fanno una danza, s’accoppiano con altre farfalle, si poggiano su un altro grappolo. S’alzano, danzano, s’accoppiano, si poggiano. Così per l’interno arco del sole, così per l’intera stagione dei fiori. Poi, sazie e gonfie di linfa zuccherina, coveranno delle uova, dalle uova si schiuderanno delle larve e dalle larve nuove farfalle; e gli anni muteranno i colori in nuove forme, in nuove geometrie, in incantevoli moltitudini. E vivranno, un solo anno, un solo mese o giorno, una sola stagione dei fiori intorno alle piante di lillà.

Le farfalle adorano i Lillà..

Battaglioni di farfalle invadono i lillà
Mentre il sole fa capolino tra gli alberi
E tozzi calabroni ronzano a scatti goffi.

Le farfalle danzano tra i fiori di lillà
Dipingendo l’aria di nero e d’arancio
S’adagiano lievi sui grappoli ricchi.

Volteggiano che pare un dì festoso
E s’odono lanciar beffarde risatine
All’uomo buffo longevo e brutto.

Srotolano lunghe cannucce nei calici
Colmi e gonfi, bramosi come vagine
In attesa di fecondare i loro pistilli:

Corteggiandosi tra le volte azzurre
Burlandosi dell’uomo invereconde
Le farfalle fanno l’amore coi lillà.

di Matteo Di Stefano

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lunedì 26 aprile 2010

Confidenze a una zanzara

I miei sensi sono in orgia
nelle ore magre della notte
d'immagini e olezzi remoti.
Sogno in preda al desiderio
di fare il cantore sdolcinato,
ammirando fotografie canto
osannando mirabili bellezze
e te, ignara musa dormiente
a settanta miglia di respiri.

Lo sanno solo i grilli canterini
le ranocchie giù agli stagni
e un'avida zanzara spazientita:
- Degli occhi hai detto mille volte
dimmi, dimmi della carne: tenera?
- Tenerissima! Ah ma gli occhi,
gli occhi....
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venerdì 23 aprile 2010

Aracne e il ragnetto salvato.


Aracne, era un'abile tessitrice che viveva nella città di Colofone; si riteneva così abile nel suo campo da ritenersi perfino superiorea Minerva, divinità protettrice delle tessitrici, e la sfidò. La dea Minerva, travestitasi da vecchia, scese sulla terra e si recò da Aracne, cercando di persuaderla a non sfidare la Dea e di scusarsi con essa. Ma Aracne, sicura della propria arte, anziché scusarsi rinnovò la sua sfida e la Dea uscì allo scoperto. Aracne tesse una tela così bella che mandò su tutte le furie Minerva; questa distrusse la tela e s'avvento verso Aracne colpendola con la spola. Aracne tentò di impiccarsi, ma Minerva la sottrasse alla morte tramutandola in un ragno.

Proprio Aracne, o meglio un ragnetto, spunto da sotto la terra mentre rivoltavo zolle di terra con la vanga. Portava un bozzolo rotondo e bianco con sé. Lo spostamento della terra fece scivolare la rotonda sfera di tela di ragno, ma il ragno fu lesto a recuperarla. Era un bozzolo con le uova ed il ragnetto le difendeva coraggiosamente. C'era tutta la sua discendenza in quel bozzolo, tutto la sua vita precedente e quella futura. Ed era meraviglioso vedere come un esserino, così microscopico, che in casa ci va gridare dalla paura e che in un prato ci sembra così indifeso, s'immoli con tanto coraggio di fronte ad un gigante d'uomo. Davo colpi di vanga per sbriciolare le zolle in quel piccolo quadrato di terra che veniva selvaggiamente scosso, ed il ragnetto seppur vacillante era fermo, deciso a non mollare a costo della vita quel bozzolo. Perché, avrei dovuto battere ancora, con non curanza, su quella terra? Avrei potuto spezzare quella gracile vita in un colpo di vanga in modo inavvertito, senza pena, ma ero così affascinato da quella minuscola prova di coraggio che non riuscivo a staccargli gli occhi di dosso. Era nudo, su quel cumulo di terra. Stava in pace, indisturbato e protetto tra le file confuse dell'erba. Ora, sulla nuda terra, era esposto non solo alla mia vanga, ma anche ai predatori che potevano scovarlo in un baleno. Vai allora, sei stato coraggioso. Ed io non sono la Minerva. Così presi il cumuletto con tutto il ragno e lo portai in un punto protetto da foglie, ne scostai un po' e vi feci scivolare il ragnetto col suo bozzolo bianco e le sue migliaia di uova. Hai la tua importanza in questo regno bestiolina; chissà se i tuoi otto occhi hanno memoria per ricordare un essere umano.
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sabato 17 aprile 2010

Un immagine al risveglio


(Nella foto: "Sogno causato dal volo di un'
ape intorno a una melagrana un attimo
prima del risveglio" di Salvator Dalì)

c'è una immagine che non dimentico mai
il risveglio del primo gennaio

Passo le notti senza dormire
appeso al mio filo d'acrobata.
Il silenzio come unico amico
è un demone che sorride beffarbo
sul pianto di parole non trovate.

Sembro un mozzo in agonia
sulla poppa di una nave pirata
strisciante verso la sua spada,
che gemendo esala pochi versi
da barattare per un po' di sonno.

Lasciate che io dorma domani
il mondo non reclamerà l'assenza,
lasciate che dorma a lungo
ben oltre il fulgido mattino:
il gioco vostro a me non piace.

Ho pochi desideri pel risveglio
per un sorriso me l'avverereste?
Oh! Son miserie da uomo innamorato
che di candele i bagliori cattura la notte
ed ozia di giorno all'eco d'estinti chiarori.

Una sentinella scintillante voglio
che sorvegli placida i miei sogni
che mi baci senza profferir parola
e di ciò mai sia cheta e sazia!
Per un sorriso, me l'avverereste?

Matteo Di Stefano
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venerdì 16 aprile 2010

Sognato per l'inverno (Rêvé pour l'hiver) di Rimbaud


(dedicata al ragno Agenore)
D'inverno viaggeremo in un vagone rosa
con dei cuscini blù.
Staremo bene. Un nido di folli baci si nasconde
in ogni morbido angolino,

Tu chiuderai gli occhi per non vedere, dal vetro,
ghignare le ombre della sera,
collerici mostri, nera plebaglia
di lupi e demòni.

Poi ti sentirai sfiorare lieve la guancia...
un breve bacio, come un ragnetto folle,
i correrà sul collo...

"Cercalo!" mi dirai, chinando un poco il capo,
- ma ci vorrà del tempo per trovar la bestiolina
- che corre senza posa...


Versione Originale

L'hiver, nous irons dans un petit wagon rose
Avec des coussins bleus.
Nous serons bien. Un nid de baisers fous repose
Dans chaque coin moelleux.

Tu fermeras l'oeil, pour ne point voir, par la glace,
Grimacer les ombres des soirs,
Ces monstruosités hargneuses, populace
De démons noirs et de loups noirs.

Puis tu te sentiras la joue égratignée...
Un petit baiser, comme une folle araignée,
Te courra par le cou...

Et tu me diras: "Cherche!" en inclinant la tête,
Et nous prendrons du temps à trouver cette bête
Qui voyage beaucoup...

Arthur Rimbaud
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lunedì 12 aprile 2010

Ofelia (Ophélie) di Rimbaud

(Rimbaud scrisse questa poesia all'età di 16 anni)
(il dipinto è di John Everett Millais -1852-)

I


Sull'acqua calma e nera, dormono le stelle,
come un gran giglio ondeggia la bianca Ofelia,
ondeggia lentamente, stesa fra i lunghi veli..
- Dalle selve lontane s'odono grida di caccia.

Son più di mille anni che la triste Ofelia
passa, bianco fantasma, sul lungo fiume nero.
Son più di mille anni che la sua dolce follia
mormora una romanza alla brezza della sera.
Il vento bacia i suoi seni e dischiude a corolla
i grandi veli cullati mollemente dalle acque;
i salici frusciando piangono sulla sua spalla,
sull'ampia fronte sognante si chinano le canne.

Le ninfee sfiorate le sospirano intorno;
ella risveglia a volte, nel sonno di un ontano,
un nido da cui sfugge un piccolo fremer d'ali:
- un canto misterioso scende dali astri d'oro.

II

O pallida Ofelia, bella come la neve!
Tu moristi fanciulla, da un fiume rapita!
- I venti che precipitano dai monti di Norvegia
ti avevano parlato dell'aspra libertà;

e un soffio sconvolgendo le tue folte chiome,
all'animo sognante portava strani fruscii;
il tuo cuore ascoltava il canto della Natura
nei gemiti delle fronde, nei sospiri delle notti;

l'urlo dei mari in furia, come un immenso rantolo,
spezzava il tuo seno acerbo, troppo dolce ed umano;
ed un matin d'aprile, un bel cavaliere pallido,
un povero folle, si sedete muto ai tuoi ginocchi!

Cielo! Amore! Libertà! Qual sogno, mia povera folle!
Tu ti scioglievi a lui come la neve al sole:
le tue grandi visioni ti strozzavan la parola
- e l'Infinito tremendo smarrì il tuo sguardo azzurro!

III

Ed il poeta dice che ai raggi delle stelle
vieni a cercar, di notte, i fiori che cogliesti;
e d'aver visto sull'acqua, distesa fra i lunghi veli,
la bianca Ofelia ondeggiare come un gran giglio.


Versione originale

Ophélie

I

Sur l'onde calme et noire où dorment les étoiles
La blanche Ophélia flotte comme un grand lys,
Flotte très lentement, couchée en ses longs voiles ...
- On entend dans les bois lointains des hallalis.

Voici plus de mille ans que la triste Ophélie
Passe, fantôme blanc, sur le long fleuve noir;
Voici plus de mille ans que sa douce folie
Murmure sa romance à la brise du soir.

Le vent baise ses seins et déploie en corolle
Ses grands voiles bercés mollement par les eaux;
Les saules frissonnants pleurent sur son épaule,
Sur son grand front rêveur s'inclinent les roseaux.

Les nénuphars froissés soupirent autour d'elle;
Elle éveille parfois, dans un aune qui dort,
Quelque nid, d'où s'échappe un petit frisson d'aile:
- Un chant mystérieux tombe des astres d'or.

II

O pâle Ophélia! belle comme la neige!
Oui, tu mourus, enfant, par un fleuve emporté!
- C'est que les vents tombant des grands monts de Norwège
T'avaient parlé tout bas de l'âpre liberté;

C'est qu'un souffle, tordant ta grande chevelure,
A ton esprit rêveur portait d'étranges bruits;
Que ton coeur écoutait le chant de la Nature
Dans les plaintes de l'arbre et les soupirs des nuits;

C'est que la voix des mers folles, immense râle,
Brisait ton sein d'enfant, trop humain et trop doux;
C'est qu'un matin d'avril, un beau cavalier pâle,
Un pauvre fou, s'assit muet à tes genoux!

Ciel! Amour! Liberté! Quel rêve, ô pauvre Folle!
Tu te fondais à lui comme une neige au feu:
Tes grandes visions étranglaient ta parole
- Et l'Infini terrible effara ton oeil bleu!

III

- Et le Poète dit qu'aux rayons des étoiles
Tu viens chercher, la nuit, les fleurs que tu cueillis,
Et qu'il a vu sur l'eau, couchée en ses longs voiles,
La blanche Ophélia flotter, comme un grand lys.

Arthur Rimbaud


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giovedì 8 aprile 2010

Il ragazzo che attaccò un manifesto



(proseguo del post precedente "Attacchiamo opere d'arte sopra le locandine elettorali")

Questo era scritto su un grosso manifesto. Un ragazzo armato di secchio spazzolone ed altri manifesti arrotolati, lo aveva attaccato nel bel mezzo di un cartellone elettorale grande almeno tre volte il manifesto. Aveva i capelli scarmigliati, vestito non proprio in modo impeccabile, le scarpe di tela di un bianco ormai divenuto un grigio urbano. Su di una c’era un foro laterale e si vedeva un fondo nero che doveva essere il calzino. Scarpe vissute; forse l’unico paio che possedeva o semplicemente il primo che aveva trovato nell’armadio. Era passato con noncuranza tra la folla ammassata in attesa della metro, tra gli sguardi distratti, fugaci e indifferenti, come se fosse del tutto normale girare nelle metropolitane con secchio e spazzolone. Lo attaccò nel centro, sul volto smaltato del candidato di un’elezione appena passata. Un volto destinato a restare lì per settimane. Era rimasto uno sfondo azzurro ed una mezza scritta rossa “..iamo a te”. Poi se n’era andato, deciso a cambiar luogo e attaccare gli altri che gli rimanevano. Il manifesto non aveva firma, per quel che può valere una firma. Probabilmente era stato lui stesso l’autore; non aveva l’aria di uno manovrato dall’alto, ma semplicemente la faccia spavalda di chi canta alla città il suo grido ribelle e non ha voglia di aspettare che le acque si smuovano da se: il cosiddetto corso naturale degli eventi. Sapeva che non ci sarebbe stato un corso naturale degli eventi, così ha compiuto il suo gesto di sfogo, il suo atto di libertà. Ha preso l’iniziativa, sicuro di suscitar reazioni. In effetti, l’indifferenza si è tramutata da subito in una curiosità timida. Qualcuno di sottecchi lo guardava, tenendosi a debita distanza con l’espressione di chi pensa di trovarsi davanti un vandalo, solo perché non porta una bella cravatta come la tua. Reo! Reo di cosa? Reo di aver usurpato il paesaggio post-elettorale, insozzato la città con delle parole? Studenti assuefatti dai loro i-pod, casseforti di sicurezze sonore, hanno buttato un’occhiata assente, senza capire e senza chiedersi nulla. S’appoggiavano alle pareti, le spalle basse, la testa che annuiva senza che nessuno rivolgesse loro domande. Poi il treno è arrivato. Se ne sono resi conto solo quando il punto fisso che scrutavano con attenzione solenne, è stato violato dal movimento del treno che s’adagiava sui binari. Sono saliti con la stessa faccia di assenza, senza un’emozione.

Alcune signore si sono avvicinate, hanno letto, poi sbuffando si sono fatte da parte, detto “troppo lungo” e controllato sulla tabella luminosa quanto mancasse all’arrivo del prossimo treno.


Reazioni più che prevedibili; questo lo sapeva bene il ragazzo che ormai era scomparso nella folla. Flusso e deflusso continuavano incessantemente; le porte mangia uomini s’aprivano, sputavano via gli indigesti pendolari e ne ingurgitavano degli altri, chissà, forse sperando che fossero più saporiti. Intanto il manifesto era lì, e nel continuo avvicendarsi di genti qualcuno lo ha letto tutto. Annuendo, ritraendosi con l’occhio improvvisamente acceso di chi ha avuto un’illuminazione, immediatamente spenta dalla consapevolezza che quello non era che un sogno. Se fosse passato di lì uno, almeno un pazzo, uno altrettanto deciso a smuovere le acque stagnanti, forse davvero si sarebbe creato un movimento, un vocio diverso dal normale sottovoce sterile. Il vento freddo che soffiava nelle gallerie avrebbe gonfiato le vele delle personalità addomesticate, avrebbe fatto pensare, almeno per un momento, di essere sulla poppa di una nave salpata per raggiungere porti di mondi inesplorati. Ma non fu un gesto inutile. Non tutto fu vano. Piccoli gruppi di insofferenti si trovavano a passare. Nutrivano lo stesso sentimento di rifiuto delle cose così com’erano. Dello schiavismo televisivo, del parlare del tutto e del niente, del muoversi automatico e inconsapevole. Hanno letto con gusto. “Questo è un grande, vorrei conoscerlo!” “Ha ragione” “Tu dipingi, perché non attacchi uno dei tuoi dipinti?” “Io potrei attaccare una poesia” esclamavano con enfasi. E la loro enfasi ha coinvolto qualche vicino distratto che ha chiesto cosa ci fosse di così straordinario. Hanno spiegato, parlato con sicurezza. Le altre genti si giravano, incuriosite si sono recate sotto il manifesto a leggere. Una donna sui 50, con una valigetta da ufficio ed un’altra, con una bambina tra le braccia, si sono guardate. “Sarebbe bello se ciò accadesse” ha detto la donna con la bambina. “Ha ragione. I marciapiedi sono invasi da quel che resta delle elezioni” aveva risposto l’altra. Era appena accaduta una cosa straordinaria: si era creato un contatto. Un piccolo, infinitesimo istante di comunicazione tra due persone che non si sarebbero mai scambiate parola altrimenti. Si era incrinata la spessa parete di ghiaccio che le divideva. È arrivato il treno, sono salite insieme ed hanno continuato la loro conversazione, scambiando opinioni e riflessioni sulle loro scelte di vita così distanti. Da quel giorno, si incontrano sempre e scambiano parole.

Come loro, altri si sono ritrovati compagni di viaggio, non solo tasselli di un puzzle componibile o divisori della stessa aria. Era un giorno qualsiasi, un martedì di febbraio, un martedì 16 febbraio uggioso e freddo. Un giorno come gli altri, o quasi. Un giorno in cui un ragazzo coi capelli scarmigliati, scarpe di tela forate ed un abbigliamento non certo impeccabile, attaccò un manifesto.


Il dipinto nella foto è di Andrea Del Pesco
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mercoledì 7 aprile 2010

Attacchiamo opere d'arte sopra le locandine elettorali



Si staccano lentamente. Ci vuole del tempo prima che le loro facce scivolino via definitivamente. Lì, attaccati alle bacheche, coi volti sorridenti e inneggianti a sterili motti da supermercato. La pioggia a volte ne scaraventa a terra gruppi di cento, accumulatisi in giorni di aspre battaglie. Battaglie fatte di colla e carta, non di concetti o idee. Colla e carta. E ancora carta e colla: un arrembaggio al grido di “ride bene chi incolla ultimo”. Alla fine la bacheca s’è tramutata in un panetto di carta spesso venti centimetri. La pioggia lo rende pesante, lo fa scivolare in terra e lì si frammenta in tanti piccoli pezzettini. Una poltiglia bianchiccia, con qualche rara sfumatura, grumi informi più orridi di vermi brulicanti. Sono i manifesti della politica; cantano odi passate, vecchie elezioni ormai chiuse nella storia. Eppure rimangono ad infestare con i loro sorrisi senza carie, i denti dritti e bianchi, con affianco una frase per la quale non hanno forse nemmeno contribuito: ci ha pensato il pubblicitario. Come se si trattasse davvero di vendere detersivi. Detersivi non è neanche la parola giusta; la parola detersivo richiama pulizia -seppur chimica- ma pulizia. Invece i manifesti si logorano, ingialliscono ai venti e all’umido. Sono passati i giorni della guerra, per il momento non ci sono schiere fitte di genti da ammaliare e così non ci sono neanche nuove locandine. Solo le vecchie campeggiano, ingrigite come certi uomini, restii al vivere di fronte a quel mostro che emana suoni ed immagini irreali che è la televisione. L’unica vita che ti passa davanti tra una pubblicità e l’altra, senza un pulpito, un pensiero che possa illuminare l’attimo. Così si riduce l’umanità, appoltigliandosi davanti alla tv, in lieve divenire verso una sudicia massa di coriandoli informe. Sono visioni orrende da vedere; nessuno che fa qualcosa per rimuovere quei cadaveri dai divani e quella melma elettorale. Intanto nuovi manifesti si staccano, muoiono, ingialliscono, s’appoltigliano. S’aggiungono alle rovine delle città in declino, al grigiore del cuore della gente, imputridito dal troppo assorbimento passivo. Reduci sconci non troppo romantici.


“Sveglia! Sveglia!” hanno gridato. “Guardate intorno a voi, lo squallore, la tristezza vi sta invadendo l’anima e qualcuno su di voi danza, come su di una pista da ballo. Qualcuno usa la vostra lingua per attaccare francobolli grandi quanto uomini”. Ha ragione a gridare in quel modo. Perché lasciare che quelle immagini ormai inutili e senza senso continuino a campeggiare sui nostri giorni? E se s’attaccassero opere d’arte laddove ora motti sterili t’accompagnano sorridenti? Quadri, poesie, notizie e biografie di autori, racconti, fotografie di popoli, di fiori e di casolari abbandonati. Tutto ciò ch’è buono a suscitare una reazione vera, autentica. Trasformiamo la città in un museo, in un libro da sfogliare ad ogni vicolo. Non è un atto di qualunquismo, l’arte non è mai qualunquistica. L’arte serve al risveglio dei sensi, comunica l’uomo con ciò che l’uomo è nel tempo. L’arte è critica, e la critica porta a riflessione. L’arte è denuncia sociale, impeto rivoluzionario. L’arte è anche fine a se stessa, esaltazione del bello, disincanto che scioglie dal torpore del logoramento, dall’inutilità dell’utile. L’arte è espressione, l’espressione è figlia del pensiero, il pensiero fa l’uomo libero, l’uomo libero è critico e non governabile. Allora forse ve lo impediranno, ma voi finite comunque il vostro sporco lavoro di carta e colla. Potranno incatenar le vostre gambe ma non i vostri pensieri. Non insultateli, tirate fuori un libro: leggetegli una rima di Baudelaire. Ho visto un ragazzo che lo faceva, gridava: “Sveglia! Sveglia!”


E se proprio dovranno scivolare e sbriciolarsi e venire via lungo il marciapiede, il passante avrà una consapevolezza: che quella bacheca, per un po’ di giorni, ha reso la sua vita migliore.


Il dipinto nella foto è di Andrea Del Pesco

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sabato 3 aprile 2010

Lampada rovesciata


L'aria pungente dei silenzi irrisolti
è come una lampada rovesciata
che lascia incompiuto un romanzo.
Ci si muove a tentoni nel buio
per lo spasmo di luce d'una candela
l'eterno bloccato nell'indefinito del tempo.

L'inesorabile arco lunare a far luce
lieve bagliore nel fitto degli alberi
che lascia il mistero di ombre brumose.
Il bosco si riempe di folletti
e di fate, sarà vero?
Irrazionale
come la scintilla che accende due corpi
ardenti combattenti nell'oscurità
vincolati alla dimenticanza del buio
di se.

Perdersi per poi ritrovarsi
in una goccia di sudore
al clamore dei battiti.

Lascia che mi perda nelle tue voluttà
che in te ricerchi l'affanno
e la mia quiete.
di Matteo Di Stefano
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venerdì 2 aprile 2010

Eppure lei mi ricorda qualcuno, ci conosciamo?


Vi siete mai chiesti, quante delle persone che incontriamo nelle nostre giornate conosciamo di già? Chissà quante volte le nostre vite sono ad un passo dal potersi toccare e non lo fanno. Si sfiorano appena. È già difficile tirar su lo sguardo, figuriamoci toccarsi. Abbiamo l'abitudine di frequentare chat, blog, forum, community, social network, può darsi che la persona che vi alita sul collo e vi ruba quella poca aria che rimane, sia proprio quel flick81, o quel flyer che a voi vi piace tanto. Passiamo le notti ad infracicarci gli occhi per mandare una faccina allegra :) in segno di simpatia, e quando ce lo ritroviamo davanti, non lo degnamo neanche di uno sguardo. Proprio così: quell'uomo canuto, bassino e un po' goffo è il leader indiscusso delle opinioni sulla community; quella ragazza scalcagnata che non si direbbe possa assomigliarvi tanto nell'animo, è la vostra miglior confidente nelle conversazioni private. Quel belloccio con le cuffie che annuisce senza che nessuno gli ponga domanda, è proprio quel _DivInO_ che vi rovina tutte le discussioni: quel cialtrone non solo interviene in maniera arrogante senza essere in grado di sostenere l'argomento, ma si permette perfino di insultare. Ci sono due mondi: quello di fuori e quello di dentro (parlo di rete, non di quello profondo e intimo dentro di noi). Mondo di dentro, perché è come rinchiudersi, costruire dei solidi muri tra noi e il resto. Spesso si conoscono più persone dentro che fuori. O meglio si conoscono più utenti non chiaramente identificati che persone. Eppure chissà quante volte ci sarà capito di averlo vicino, sul bus che scoppia, trattenendo il fiato per occupare meno spazio; chissà quante volte ci saremo schiacciati le scarpe. E neanche una parola, un sorriso: occhi bassi e quotidiano silenzio.
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