mercoledì 29 dicembre 2010

7 14 21 28, tana per Rezza!

un grazie a Francesca
che mi ha fatto un bellissimo regalo


Se sei fortunato qualcuno un giorno ti dirà: vai a vedere Antonio Rezza. La prima volta che ho sentito parlare di Antonio Rezza è stato lo scorso anno, quando un intero articolo gli era stato dedicato su TrovaRoma. Campeggiava ad ornamento una foto del volto plastico del Rezza infilato in una tela elastica; l'immagine mi mise addosso molta curiosità. Da allora ho sempre serbato la volontà di andare a vedere quell'uomo curioso che tanto m'aveva destato interesse. A distanza di un anno ho potuto leggere qualcosa su di lui e, soprattutto, vedere i cortometraggi presenti in rete che svelano molto del personaggio. Inevitabilmente quel pulpito di curiosità s'è mutato in smania di voler assistere ad un suo spettacolo dal vivo. Incredibile come personaggi di tale comicità e stazza scenica non vivano che di passa parola. Raramente mi è capitato di leggere di Rezza sui maggiori quotidiani e, perfino ora che si avvicina l'ultimo dell'anno e i giornali abbondano di proposte per il 31 a teatro, Rezza viene dimenticato (o volutamente messo da parte).

Ieri finalmente ho potuto soddisfare la mia curiosità. Ero al Teatro Vascello, parte del fiero pubblico di 7 14 21 28, quarto spettacolo dell'antologica Rezza-Mastrella. Tra il pubblico, composto per la maggior parte da giovani (ed è la prima volta che vedo una netta maggioranza giovanile), si vede anche Max Tortora. Lo spettacolo inizia, un uomo in tutina e a torso nudo si dondola su un'altalena, non parla, fa soltanto smorfie: tanto basta per far partire le prime risate tra il pubblico, tanto basta per capire il potenziale espressivo di Antonio Rezza. Il resto è un fluire bruciante di battute, situazioni, mutamenti, cambi d'espressione e di toni. È un vero vortice di energia che prende anche gli individui più freddi e li denuda dai loro atteggiamenti trattenuti. Imprendibile, si muove nel suo habitat (la scenografia della fedele Flavia Mastrella) come un ossesso funalbolo ed hai l'impressione che ti porterà fino al mattino seguente senza che tu possa rendertene conto. C'è da chiedersi dove finisca l'uomo di spettacolo e dove inizi la follia umana, ma lui è un uomo da palcoscenico e il palco, specialmente quello del Vascello, lo conosce in ogni millimetro. Sa aggrazziarsi i favori del pubblico, sa quando tacere e strappare risate con una semplice espressione facciale, sa improvvisare situazioni modellandosi alle reazioni del pubblico. E guai ad esser permalosi o religiosamente sensibili se non si vuol finire con l'essere oggetto preferito delle sue battute. Squilla un telefono, il nostro funambolo tace, il telefono smette di squillare: - stavo aspetta' che lo spegnevi! Scroscio d'applausi. Un one man show corrosivo, che alterna temi sensibili come il precariato, gli scandali sessuali o il disatro italiano e della sua politica, a scenette di raccordo ed esilaranti con giochi di parole imprevedibili. Inizi a capire perché non ne parlano: non risparmia niente e nessuno. Eppure, non è l'ironia ad personam a cui siamo abituati, Rezza prende il tutto e lo fa oggetto della sua polemica; senza far nomi, senza indicare colpevoli, perché non ne esistono e l'Italia è un fluire continuo in cui chi c'è oggi continua lo sfascio iniziato ieri. E ci scappa anche una bestemmia; lui è così, provocatore. Forse si può restare impressionati, si può gridare alla blasfemia, ma altro non è, il Teatro, che la rappresentazione della vita (e di bestemmiatori quotidiani) e Rezza il suo autorevole portavoce.
E un apprezzamento al "capriolo" Ivan Bellavista che preso dall'estasi rezziana quasi dimenticavo.

Alessandro Giova

7-14-21-28
Compagnia RezzaMastrella - Teatri 91 – Fondazione TPE
Regia di Antonio Rezza e Flavia Matrella
Interpreti: Antonio Rezza e Ivan Bellavista

al teatro Vascello fino al 2 gennaio
(speciale capodanno il 31 dicembre con cena a buffet, brindisi a mezzanotte e asta al buio)




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lunedì 27 dicembre 2010

Il più bello dei mari - Nazim Hikmet

(nell'immagine: Mare di nebbia di Friedrich)


Il piú bello dei mari
è quello che non navigammo.
Il piú bello dei nostri figli
non è ancora cresciuto.
I piú belli dei nostri giorni
non li abbiamo ancora vissuti.
E quello
che vorrei dirti di piú bello
non te l’ho ancora detto.

Nazim Hikmet
da Poesie d'amore


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sabato 25 dicembre 2010

Il culto del Sol Invictus ed il Natale.

Ci ho pensato un po' prima di pubblicarlo. Non capivo se la natura di questo post fosse o meno coincidente con l'essenza di questo blog. Poesia, arte, teatro e... cultura? Non sono forse tutte sorelle? Ciò che sto per proporvi non è certo un articolo di interesse artistico, ma certamente lo è dal punto di vista culturale. Credo in nessun modo di rovinare i contenuti di questo blog, si mantiene un certo distacco e le finalità sono soprattutto culturali. L'arte nasce dalla vita e dalla cultura: un uomo che ignori la vita e la cultura difficilmente potrà essere un artista perché significherebbe che tanti sono gli aspetti della propria esistenza che ignora. Allora mi sono deciso a pubblicarlo, convinto del fatto che non sono contenuti contraddittori e stonati, ma argomenti che si possono facilmente trovare sui libri di storia. E la parola libro, è una parola molto simpatica a questo blog.

http://thelightbringer.org/Resources/Images/sol-invictus-coin.jpg

Cosa festeggiamo davvero a Natale? Quello che oggi chiamiamo cristianamente Natale è una festa che esiste prima ancora della sua cristianizzazione: in origine fu il Dies Natalis Solis Invicti (Giorno di nascita del sole invitto). Questa festività, che cadeva proprio il 25 dicembre, era molto popolare tra i romani, anche se il rito del Sol Invictus ha origine in oriente. Cosa di non minor conto, la festività del Deus Sol Invictus è antecedente al Natale cristiano. La religione cristiana prese e cristianizzò questa festività facendola coincidere con la nascita di Cristo.

La precedente festività veniva celebrata qualche giorno dopo il solstizio d'inverno. Questo cade precisamente il 21 dicembre e tra il 22 e il 24 dicembre il sole sembra fermarsi in cielo. In questo periodo si ha la notte più lunga e il giorno più breve. Dopo questa lotta tra luce e tenebre , l'invitto o invincibile sole vince la propria battaglia: la luce sconfigge le tenebre e le giornate tornano a farsi lunghe. Era perciò una festa celebrativa della vittoria della luce direttamente collegata agli eventi astronomici: tanto più che si trovano varie festività similari in molte culture anche distanti tra loro. Ma cosa fece del Sol Invictus il Natale che oggi veneriamo come nascita di Gesù? La festa del Natale appare la prima volta sotto il regno di Costantino che istituzionalizzò per decreto i festeggiamenti della natività. La data fissata fu fatta coincidere con il Sol Invictus festeggiato dai pagani: questi dunque veneravano il Sole, tale festività cadeva il 25 dicembre e ciò avveniva prima che lo facessero i cristiani. La scelta della nascita di Gesù al 25 dicembre non fu altro che una scelta politica di far coincidere festività esistenti e festività "emergenti". Venne fortunatamente in soccorso dei cristiani l'editto di Teodosio che stabilì come unica religione di stato il cristianesimo. Il cristianesimo e il culto del Natale furono quindi culti imposti per decreto che andarono ad affiancarsi prima, e sostituirsi poi, ai precedenti festeggiamenti.
I due culti convissero ancora a lungo, ed anni dopo l'editto si leggono ancora le parole di Papa Leone I:

« È così tanto stimata questa religione del Sole che alcuni cristiani, prima di entrare nella Basilica di San Pietro in Vaticano, dopo aver salito la scalinata, si volgono verso il Sole e piegando la testa si inchinano in onore dell’astro fulgente. Siamo angosciati e ci addoloriamo molto per questo fatto che viene ripetuto per mentalità pagana. I cristiani devono astenersi da ogni apparenza di ossequio a questo culto degli dei. »

Sapete come andò a finire e cosa è giunto fino ai giorni nostri, ma la radice di questa festa e soprattutto il suo significato simbolico è rimasto invariato: il sole viene ad allungare le giornate e questo decreta la vittoria della luce sulle tenebre; la luce simbolicamente è nascita e vita, e così, da festa pagana del sole si è arrivati al Natale, festa cristiana della nascita del bambinello. Un fatto che, coincide da sempre con il Sol Invictus: allora buon Dies Natilis Solis Invicti a tutti.
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mercoledì 22 dicembre 2010

Poesia d'amore: Figlio Evitato di Alberto Bevilacqua

... per deliberato amarti ...
(nell'immagine: Nudo Blu di Picasso)

Si può amare un figlio mai avuto? Sì, ed è forse l'atto d'amore più grande che può esistere, perché è un atto consapevole del mondo circostante, è un rifiuto a concepire un'esistenza in un mondo ammuffito. Una prova d'amore contro l'egoismo del concepire per se stessi senza la valutazione del futuro del concepito. Felicità o dolore? Tormento o estasi? Cosa ci attende al momento della nostra nascita? La bilancia pende sempre un po' di più verso il baratro, le debolezze investono la forza e nel gioco delle probabilità l'infelicità ha un peso maggiore. È quando si diventa consapevoli del male del mondo, del tremendo supplizio dei vivi e del dolore cui si può andare incontro senza che si possa intervenire in alcun modo sulla rotta, è in quel momento che l'essere consapevole muta il suo amore in una scelta di non concepimento; un atto estremo d'amore che nutre col dolore dell'anima un figlio desiderato e mai avuto.
Figlio evitato è tra le più belle poesie di Bevilacqua, carica di passione, sentimento, dolore e amore. Una poesia dedicata a quel figlio che il poeta avrebbe voluto, che stringe a se come fosse di carne viva ma è solo l'essenza dei suoi rimpianti. Un desiderio che contrasta con l'amara constatazione d'una esistenza difficile, un duro vivere che viene risparmiato col più altruistico (e incompreso) atto d'amore. Non mi stupisce che questa poesia sia tra le più care al poeta stesso.


"Ci fu il piccolo enigma del Figlio evitato. Riflettevo che, nel bilancio negativo di molti aspetti della mia vita, il male di mia madre si era imposto. Con effetti radicali, alcuni devastanti. Dovevo riconoscerlo con rassegnata amarezza. Avevo pagato i conti che lei aveva lasciato in sospeso dopo essere stata dilapidata. In me si era fatto ossessivo il pensiero che non ero padre, traumi e contagi materni mi avevano impedito di esserlo. Ne era nata una poesia. Fra le mie che considero più belle. L'avevo dedicata al figlio che non avevo avuto... La tenevo sul mio tavolo di lavoro. Andavo a rileggerla per provarne una pietà tutta mia, per farmi del male. Un giorno, il foglio con la poesia scomparve... Ho ritrovato il foglio con la poesia tempo dopo, fra le pagine del Diario di mia madre."


FIGLIO EVITATO

... è nello sguardo chiaro
che potresti avere, è nel tuo guardarmi
furtivo, mentre sono distratto,
che mi capia di pensarti,
figlio
che non ho voluto per deliberato amarti

- potrebbero, se tu fossi esistito
essere le nostre vite
strette l'un l'altra
come piccole scimmie freddolose
al vento di questa sera
... ti avrei al mio fianco a camminare
in false distanze, scorci
di pensiero anch'esso di prospettico inganno
... o forse
mi potresti persino detestare

- avresti potuto
essere il mio orgoglio - dicono -
ma il mio orgoglio è l'averti risparmiato
l'ora della penombra
che affila la lama:
tu solo puoi dire
se fu errore e in che misura
non averti dato in pasto alla specie
... tu solo capire
che con la forza del vuoto ti ho piena,
mia statuina sacra,
mio geranio a cui do acqua
alla primora del giorno,
e giorno non c'è che mi dimentichi

... ci troveremo là dove si sta nel prima
e al prima si torna,
rispondimi: perché avrei dovuto
infliggerti devianze di una via
per un calvario breve?
- mi vedrai un giorno apparire,
mi lascerai, io spero,
il posto a sedere
accanto a te: ricordati, se puoi,
di toccarmi almeno le mani
nelle mie mani le piaghe
del non averti
mai accarezzato la fronte da vivo

... delle primavere, delle donne che avresti
potuto avere
è fatta questa vastità della mia solitudine;
mi vanto solo di questo:
non ho buttato nel pattume nessuno.


Alberto Bevilacqua

poesia presente nella silloge
interpretando in versi la detenzione di mia madre nell'ospedale psichiatrico di C.
e in Le Poesie - Oscar Mondadori -





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giovedì 16 dicembre 2010

Berlino


Ho visto candida
la neve stendere gelidi manti,
le strade scaldarsi di uomini
mille impronte fiammeggiare
al focolare del rosso vino.

Ho visto sguardi pazientare
davanti lunghe indecisioni,
comunione d'istinti e umanità.

Ho visto gente diversa
trovare un accordo comune
nel suono d'una parola,
dita intirizzite sulle mappe
indicare dubbie destinazioni.

Ho visto metropolitane,
fermate ognuna diversa
mutare il movimento in arte.

Ho visto gallerie illegali
tra umide decadenze
serbare autentici artisti
e pubbliche mostre fatue
ostentate presunzioni osannare.

Ho visto,
come dall'oppressione nascano vivi
colori e emozioni contro la spada.

Ho visto volti assassini
con mani tese ai morti
innalzare marmorei silenzi
ai solenni templi della Storia.

- Ho udito,
miei connazionali parlare
d'una Patria in fiamme
senza nostalgia
bevendo,
ho udito
infiniti strepiti lontani
sfiorar lievemente l'anima,
e sì distante m'è parsa
quella terra di fuochi
che solo sentivo il calpestio
di quattro passi nella neve.

Matteo Di Stefano
(nell'immagine un dipinto di
Alexander Rodin)
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martedì 7 dicembre 2010

L'Amleto attualizzato

Questo curioso riadattamento in chiave moderna del celebre monologo di Amleto l'ho trovato all'ultima pagina del secondo numero di To Be, rivista gratuita di recente formazione dedicata al teatro. La rivista, distribuita nei teatri e non so in quali altri posti, per ora è presente solo a Roma e nel Lazio. Il pezzo viene proposto come traduzione apocrifa e ci mostra un Amleto totalmente nuovo, contemporaneo; prendendo come spunto un personaggio che non citeremo, questa traduzione fornisce la prova concreta della spiccata universalità del linguaggio shakespeariano.


Entra Amleto

Essere o non essere, questo è il problema:
se sia più nobile soffrire, nell'intimo del proprio spirito,
le pietre e i dardi scagliati dall'ex alleato
e cofondatore, o imbracciar l'armi, invece,
contro i giudici nemici, e, combattendo contro i processi,
metter loro le fini. Sparire. Volare. Nient'altro.
E nell'antigua villa poter calmare
i dolorosi battiti del cuore, e le mille offese dei giornali
di cui fu vittima la mia carne: quest'è una conclusione
che desidero notevolmente. Sparire, giacere.
Dormire, magari trombare. È proprio qui l'ostacolo:
perché in quel partito d'amore,
tutti i sogni che possan sopraggiungere
quando noi ci siamo liberati dal tumulto,
dal viluppo di questa vita morale,
dovranno indurci a riflettere. È proprio questo scrupolo
a dare alla sventura una vita così lunga!
Perché, chi sarebbe capace di sopportare
le frustate dei secondi fini,
i torti dei giornali e delle televisioni, gli oltraggi dei travagli,
le sofferenze dell'amore partito e non corrisposto,
gli attacchi della legge,
l'insolenza dei giudici e lo scherno che il mio merito
riceve fin dai sodali, se potesse egli stesso
dare a se stesso la propria quietanza
con un nudo pugnale? Chi s'adatterebbe a portar cariche
di presidenze di consiglio o addirittura di repubblica,
a gèmere e sudare sotto il peso d'una vita grama,
se non fosse che la paura di sentenze prima della morte
- quel territorio inesplorato dal cui confine
non torna finora indietro nessun viaggiatore -confonde
e rende perplessa la volontà,
e ci persuade a sopportare le maldicenze
che già soffriamo piuttosto che accorrere verso altri mali
di cui non sappiamo nulla. A questo modo,
tutti ci rende vili la coscienza,
e l'incarnato natuale della risoluzione
è reso malsano dalla pallida tinta del cerone,
e imprese e leghe di gran conseguenza,
deviano purtroppo in mille correnti,
e perdono il nome d'azione. Vota, ora:
o bella Democrazia! Ninfa, nelle tue preghiere
intercedi per me, peccatore.
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domenica 5 dicembre 2010

Fiori di Dama

ad una dama addormentata

Ci bastava esser conoscenti,
conoscersi non era abbastanza.
Con le lettere interrogammo
cuore, testa, mezze strade,
tra gli uni e gli altri: sorrisi.
Era poca cosa la simpatia
dei Fiori di Dama colsi
sospirante i notturni petali.


Invitammo i cuori a rischiare,
dove crescevano ortiche
mani curarono margherite,
quanto piacevole fu sentire
il gusto nuovo dello scoprirsi.

Dicembre sui laghi volgemmo
regnando su isole di pace
ma sì pochi parvero i giorni
ch'esilio e fuga fu la Catalogna.
Con un sorriso da birbanti
voltati senza scendere
- per pigrizia o diletto -
guardammo quelle ripide scale:
come Fiori di Dama ovunque
sbocciarono le nostre notti
il tempo fece di noi un'alcova.

A scoter chiome gialle
e pungere disfatte lenzuola
con beffarde raffiche
l'opaco autunno venne,
e fu un qui dove quando
ad interrogare il giorno morente,
arrivò, senza avvertire,
piacevolmente inaspettato
il tempo delle brandine.

Matteo Di Stefano(nella foto il bacio di Munch)
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venerdì 3 dicembre 2010

Psicosi delle 4.48, ultimo atto della Kane al Teatro Lo Spazio



Solitamente sono l'ultimo a lasciare la sala. Mentre il pubblico abbandona la platea resto impietrito, fisso la scena ormai vuota e ricompongo i tasselli dello spettacolo lungo il sentiero delle emozioni suscitate. Questa volta non ero l'ultimo: una ragazza è rimasta seduta in prima fila piangendo. Piangeva a testa bassa, lasciando scivolare vigorosi singhiozzi. Ho provato grandi emozioni sedendo in teatro, ma mai così intense da rimanere interdetto in un mare di lacrime.

Agghiacciante. È questa la prima parola che mi viene in mente pensando a Psicosi delle 4 e 48 di Sarah Kane, autrice britannica morta suicida a 28 anni, in scena in questi giorni presso il Teatro Lo Spazio di Roma. Un testo, ultimo della Kane prima di suicidarsi, che ti prende direttamente allo stomaco; c'è, nelle sue crude parole, dolore, tutto il dolore esistenziale di un'artista complessa.
Monologo femminile che mette a dura prove le doti attoriali, è un tetro grido di dolore che si instaura nelle nostre viscere trascinando con sé tutto il malessere, la follia, la stretta morsa della solitudine, la consapevolezza causa prima dell'inadeguatezza nei confronti del mondo in cui si vive. Tempo, forse quello sbagliato: - forse sono nata nell'era sbagliata.
Un dolore che porta a progettare il suicidio, atto finale lucido e pensato, consapevole fine dei mali: e se non fosse la fine? Se lo chiedeva anche Amleto nel suo famoso monologo. Morte desiderata, cercata, eppure ripudiata: "Io non voglio morire, nessun suicida vuole morire".
È il peso della vita a bisbigliare nel vento la parola suicidio, è la solitudine, il macigno opprimente che valuta accettabile l'inaccettabile morte. Psicosi delle 4 e 48 è un sussurro che diviene grido poco a poco, lancinante richiesta d'aiuto, una richiesta di soccorso non alla medicina ma all'amore. "Mi caverei gli occhi, mi farei amputare gli arti, ma non rinucerei mai all'amore". Il grido raggiunge il suo massimo, si spegne, torna sussurro, diviene silenzio sotto un velo bianco.

L'allestimento è semplice. Walter Pagliaro costruisce un ambiente estremamente intimo: non viene usato il palco, l'azione si svolge ad altezza pubblico, come se fossimo noi quei medici che studiano da dietro uno specchio il decadimento del malato. Un letto al centro, coperte bianche, tre cuscini, il pubblico sistemato a ferro di cavallo intorno al luogo dell'azione. Una Micaela Esdra braccata dai nostri occhi, chiusa dentro un recinto di respiri. Non ci guarda, tiene gli occhi chiusi per molto tempo, finché lo spazio si fa angusto e guarda nelle nostre pupille come fossero i muri gommati di un manicomio. Il respiro si spezza e l'azione frenetica, scaccia fantasmi, risponde a se stessa, ci litiga, talvolta combatte fisicamente con qualcuno; ma non c'è nessuno, l'unica presenza è quella che proviene dalla sua testa, una voce che sembra non provenire da lei, ma dall'alto, un pensiero tonante anche per noi: lei è dinanzi a noi spossata, la sua voce scende dall'alto, ci prende alle spalle. Mi piace ciò che ha messo in piedi Pagliaro: con un testo del genere si è forse tentati di abbagliare il pubblico, stupire ricercando forme ad effetto. Invece lui opta per la semplicità rappresentativa per dare maggior forza alle parole. La sala era piccola, ma l'attrice usava il microfono. Non amando particolarmente l'uso del microfono a teatro, ne ero rimasto contrariato, in quanto sempre più mi convinco che si ricorre alla tecnica per sopperire alle mancanze degli attori. Mi ha spiegato il ragazzo alla regia della scelta voluta e pensata al fine di creare un effetto d'insieme, una voce che provenisse dal pensiero e non dalla bocca, che scendesse sul pubblico avvolgendolo e incrinando un po' quell'intimità. La Kane non parla al pubblico ma a se stessa e in questo la scelta è stata azzeccata e ben calibrata. Al di là delle proprie preferenze personali, è proprio quando le sensazioni del pubblico e la volontà del pubblico si incontrano che uno spettacolo può definirsi riuscito.

Buona interpretazione di Micaela Esdra, seppur le sue variazioni di tono spesso non sembravano pensate. Probabilmente il microfono influiva negativamente in questo aspetto. Energica, pulita, nessuna sbavatura, eppure è mancata una brillantezza delirante nei momenti culmine che avrebbero dato maggior vigore alla sua prova: se non è un dieci è un otto. Peccato alla fine non aver sentito gli scroscianti applausi di una sala piena. Nella sala erano presenti soltanto 16 persone (me compreso), e il battito delle mani di un pubblico tanto esiguo trasmette una vaga senzazione di freddezza. Peccato, ci voleva un po' di calore per sciogliere la tensione; forse anche per questo la ragazza piangeva.

Recensione a cura di Alessandro Giova
(visto al Teatro Lo Spazio il 2/12/2010)


PSICOSI DELLE 4.48
di Sarah Kane

regia di Walter Pagliaro
con Micaela Esdra
Associazione Culturale Gianni Santuccio

DAL 01 DICEMBRE AL 12 DICEMBRE presso il Teatro Lo Spazio,
Via Locri 42/44

Informazioni Tel.+39 06 77076486 +39 06 77204149 (15,30-19,30)
info@teatrolospazio.it

Psicosi delle 4.48 è l’ultimo testo di Sarah Kane che qui porta in scena la sua morte in un’ora che non è insolita, dato che secondo alcune statistiche, le 4.48 sembra l’ora più adatta ad assecondare il suicidio. Quali possono essere le cause di una simile scelta? Il rapporto disarmonico con i genitori, la sfiducia nella società, il sentirsi in colpa per tutte le guerre, ma soprattutto la mancanza di amore, la solitudine insopportabile, specie se ci si sente abbandonati da chi si ama. Psicosi è una confessione struggente, un atto di fede nei confronti del teatro che ci obbliga a guardarci dentro sempre senza alibi né ipocrisie.
- Walter Pagliaro -


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mercoledì 1 dicembre 2010

Antonio Rezza si fa in 5 al Teatro Vascello.



Quello che si terrà al Teatro Vascello di Roma dal 7 dicembre al 2 gennaio è un vero evento. A partire dal 7 dicembre, Antonio Rezza e Flavia Mastrella incontrano il pubblico romano con un'antologia delle loro rappresanzioni. Un mese, cinque spettacoli del duo irrequieto e disarmante ingoiati in raffiche tanto ravvicinate da non aver fiato per riprendersi. La mimica facciale di Rezza e le costruzioni di Flavia Mastrella si sono incontrate nel 1987 e da allora hanno dato vita ad una lunga collaborazione. Il Vascello ci propone un viaggio attraverso cinque tappe (in ordine cronologico) della strana coppia; un viaggio in un ambiente creato dal nulla, immaginario, all'interno del quale si muove e agita il corpo di Antonio Rezza. Ho sentito dire che Rezza è inquietante; decisamente lo è, ma è soprattutto un'esperienza teatrale inusuale che ha una propria morfologia in un panorama teatrale che stenta a rinnovarsi, trovando spesso difficoltà a trovare nuovi linguaggi, situazioni, azioni.


IL PROGRAMMA COMPLETO

PITECUS
7-8-9 dicembre

IO
10-11-12 dicembre

FOTOFINISH
dal 14 al 19 dicembre

BAHAMUT
21-22-23 e 26 dicembre

7-14-21-28
dal 28 dicembre al 2 gennaio (31 dicembre speciale capodanno)

con Antonio Rezza
e con Ivan Bellavista, Giorgio Gerardi
(mai) scritti da Antonio Rezza
negli Habitat di Flavia Mastrella
assistente alla creazione Massimo Camilli
disegno luci Maria Pastore
organizzazione Stefania Saltarelli
una produzione: RezzaMastrella; Teatro 91; Fondazione Teatro Piemonte Europa

Teatro Vascello
Via G. Carini 78, Roma Zona: Monteverde
Tel: 06-5881021 06-5898031
biglietti: intero 18,00 - ridotto 15,00
ridotto studenti e gruppi di almeno 10 persone 12,00 euro

Il Vascello offre uno speciale abbonamento per i 5 spettacoli al costo di complessivo di 50 euro. Gli abbonamenti vanno ritirati presso la biglietteria del Teatro entro il 9 dicembre.


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lunedì 8 novembre 2010

Brevi istanti

Quel tempo fatto di noi,
intimi sognatori nelle notti
e nei mattini troppo giovani,
che si fan ladri di briciole
sui nostri affamati palmi.

Della mia sete i sorsi
del mio freddo i lembi
dei miei giorni le notti,
senza velar gioia dividerei
con te, Dama idillica.

È troppo presto per il treno
e troppo tardi per trattenersi
sulle labbra appena sfiorate,
già quella chioma il vento
lambisce, nostalgica carezza.

di Matteo Di Stefano
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martedì 2 novembre 2010

35 anni dalla morte di Pasolini


Perché la morte è pura poesia


Sono passati 35 anni da quando il corpo di Pier Paolo Pasolini venne ritrovato presso l'idroscalo di Ostia; irriconoscibile, massacrato, così poeticamente immagine di dolore e violenza. Nella notte tra l'uno e il due novembre, Pasolini venne battuto a colpi di bastone e travolto con la sua auto. Una morte dai risvolti ancora irrisolti: ucciso perché era un personaggio scomodo? Massacrato per una richiesta sessuale eccessiva? E se la sua non fosse altro che premeditazione di una morte mistica?

Che Pasolini fosse un personaggio scomodo non ci sono dubbi: impegnato politicamente, critico verso la società borghese e la nascente società dei consumi, suscitò spesso polemiche nel mondo politico. Una presenza forte nella cultura del tempo che ancora oggi non rinuncia ad incantare i posteri e accendere polemiche. Vero è, anche, che un vizietto ce l'aveva: gli piacevano i ragazzetti. Proprio questa è la tesi più accreditata e rifiutata da molti, quella di un uomo dal grande spessore culturale immischiato in storie di prostituzione giovanile. Pino Pelosi, allora 17enne, venne condannato per l'omicidio dello scrittore ma tuttavia le circostanze della morte sono ancora da chiarire; inoltre lo stesso Pelosi nel 2005 in un'intervista afferma, clamorosamente, di non essere stato lui ad uccidere Pasolini e di essersi proclamato colpevole per difendere la propria famiglia. Un giallo che, anno dopo anno, non smette di alimentare un mito e, tra le nebbie, prende forma allora quella terza ipotesi, poetica, mistica, - come sostiene l'amico pittore Zigaina - di una morte organizzata dal poeta per ricercare un nuovo linguaggio. A me piace pensarla così, perché è una ipotesi irreale che tuttavia si addice ad un poeta, perché ne aveva descritto le barbare dinamiche nelle sue poesie e perché il poeta non è altro che un illusionista: e noi tutti, costantemente, ci illudiamo di comprendere ciò che invece è incomprensibile.



http://www.terraligure.it/blog/pasolini.jpg
« La sua fine è stata al tempo stesso simile
alla sua opera e dissimile da lui.
Simile perché egli ne aveva già descritto,
nella sua opera, le modalità squallide e atroci,
dissimile perché egli non era uno dei suoi personaggi,
bensì una figura centrale della nostra cultura,
un poeta che aveva segnato un'epoca,
un regista geniale, un saggista inesauribile. »


- Alberto Moravia -

E mi chiedo, prima ancora di come sia morto, cosa avrebbe detto dell'Italia di oggi, ancor peggiore dell'Italia del tempo.



Alla mia nazione di Pier Paolo Pasolini

Non popolo arabo, non popolo balcanico, non popolo antico
ma nazione vivente, ma nazione europea:
e cosa sei? Terra di infanti, affamati, corrotti,
governanti impiegati di agrari, prefetti codini,
avvocatucci unti di brillantina e i piedi sporchi,
funzionari liberali carogne come gli zii bigotti,
una caserma, un seminario, una spiaggia libera, un casino!
Milioni di piccoli borghesi come milioni di porci
pascolano sospingendosi sotto gli illesi palazzotti,
tra case coloniali scrostate ormai come chiese.
Proprio perché tu sei esistita, ora non esisti,
proprio perché fosti cosciente, sei incosciente.
E solo perché sei cattolica, non puoi pensare
che il tuo male è tutto male: colpa di ogni male.

Sprofonda in questo tuo bel mare, libera il mondo.
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giovedì 28 ottobre 2010

Una dedica a.....


....Bruno Vespa e tutti i suoi fratelli....



Non gridate più



Cessate d'uccidere i morti,
Non gridate più, non gridate
Se li volete ancora udire,
Se sperate di non perire.


Hanno l'impercettibile sussurro,

Non fanno più rumore

Del crescere dell'erba,

Lieta dove non passa l'uomo.


Giuseppe Ungaretti
da Il dolore e Vita d'un uomo




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lunedì 25 ottobre 2010

Segreto del Poeta - Ungaretti


Solo ho amica la notte.
Sempre potrò trascorrere con essa
D'attimo in attimo, non ore vane;
Ma tempo cui il mio palpito trasmetto
Come m'aggrada, senza mai distrarmene.

Avviene quando sento,
Mentre riprende a distaccarsi da ombre,
La speranza immutabile
In me che fuoco nuovamente scova
E nel silenzio restituendo va,
A gesti tuoi terreni
Talmente amati che immortali parvero,
Luce.

Giuseppe Ungaretti

da Vita d'un uomo e La terra promessa
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domenica 24 ottobre 2010

Giorni Felici, un'apoteosi di luce.




Rappresentare un testo come Giorni Felici di Samuel Beckett è un'impresa ardua, anche per uno come Robert Wilson. La genesi del testo elimina alla base uno degli ingredienti fondamentali di una rappresentazione teatrale: il movimento. Principale personaggio della pièce è Winnie, una donna sulla cinquantina sepolta fino alla vita in un alto cumulo di terra. Ha una sporta nera all'interno della quale ha diversi oggetti quali pettine, spazzolini, dentifricio, una lima, un parasole e una rivoltella che accarezza e bacia. Può comunicare solo attraverso la parola, i movimenti delle mani e la mimica facciale. Suo marito (sempre di spalle al pubblico, fino alla fine della pièce quando striscia davanti alla moglie), vive in una cavità posteriore del cumulo, pronuncia soltanto monosillabi e parole strascicate per confermare alla moglie che riesce ad ascoltarla. Sebbene possa ancora muoversi, Willie si muove soltanto strisciando.
Nel seconda atto, Winnie è sepolta fino al collo, ormai neanche e mani possono aiutarla a comunicare. Nonostante questo Winnie non perde il suo ottimismo, è felice della sua esistenza o almeno così cerca di far credere, scacciando da se stessa l'idea di un'esistenza vuota. Un capolavoro di scrittura, un testo dalle molteplici interpretazioni che porta all'estremo la condizione esistenziale, sottolinea il dramma dell'antiazione, della vuotezza d'animo, della fuga dalle proprie angoscie. Se lo si leggesse, si arriverebbe alla conclusione che i due siano una normale coppia borghese la quale quotidianamente parla di tutto e di niente per riempire il vuoto. La situazione fisica porta la vicenda ai limiti dell'assurdo evidenziando l'impossibilità dell'individuo di mutare la propria posizione.

Con tali premesse si comprende agevolmente che il testo è di difficile rappresentazione. L'allestimento di Wilson gioca appunto sull'elemento visivo creando un'ambientazione psichedelica e irreale, con luce bianca fortissima che spinge lo spettatore all'illusoria sensazione del sogno. Molto spesso si ha l'impressione di guardare un cartone animato, proprio a causa di quell'illuminazione non naturale ed inusualmente elettrica; anche i suoni, spesso accompagnati al gesto, sembrano tratti dal mondo dei cartoni. Luci, suoni e parola, si fondono così in tuttuno affascinante, in una sincronizzazione perfetta. La bravura di Adriana Asti da un surplus alla rappresenazione, ma l'elemento visivo estremo sovrasta l'elemento concettuale presente nel testo: il dramma non è stato portato al massimo del suo potenziale. L'uso della tecnica permette giochi un tempo impensabili, agevola la creazione di situazioni evocative, ma al tempo stesso da la sensazione di un uomo subordinato alla macchina. In ogni caso, la scelta è semplice e d'effetto: un enorme pannello bianco alle spalle di Winnie alterna situazioni di luce e di buio attraverso variazioni graduali e impercettibili. Un'apoteosi visiva, una luce bianca e abbagliante che raggiunge comunque lo scopo di creare una situazione di vuoto nella quale lo sguardo viene catturato dal cumulo nero e stazionario; un vuoto che quotidianamente si trasferisce nel suono di una sveglia, in un sole che sorge nel dramma reiterato di vivere un giorno felice.

Recensione a cura di Alessandro Giova
(visto al Teatro Valle il 23/10/2010)

Giorni Felici
di Samuel Beckett

Regia, scene e luci di Robert Wilson
con Adriana Asti, Giovanni Battista Storti
Teatro Valle 15.24 Ottobre


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giovedì 21 ottobre 2010

Una poesia di Alda Merini





I poeti lavorano di notte
quando il tempo non urge su di loro,
quando tace il rumore della folla
e termina il linciaggio delle ore.
I poeti lavorano nel buio
come falchi notturni od usignoli
dal dolcissimo canto
e temono di offendere Iddio.
Ma i poeti, nel loro silenzio
fanno ben più rumore
di una dorata cupola di stelle.

Alda Merini
da Testamento
(nell'immagine il sonno del poeta di Irene Salvatori, olio su tela cm. 80 x 90
http://www.ilventoeleombre.splinder.com/)



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mercoledì 20 ottobre 2010

Delitto Pasolini, remake di un giallo irrisolto


Pier Paolo Pasolini

Qual è la verità sul delitto Pasolini? Ucciso per un complotto fascista, morto per una macabra storia di prostituzione giovanile o immolatosi per esser mito? Di verità sulla morte di Pier Paolo Pasolini, oltre a quella processuale che ha portato alla condanna del 17enne Pino Pelosi, ne esistono tante. Fu trovato morto presso l'idroscalo di Ostia la mattina del 2 novembre 1975; il suo corpo, irriconoscibile, portava i segni di un macabro massacro: bastonato e poi schiacciato dalle ruote della sua stessa macchina. A distanza di trent'anni, quella prematura e tragica morte, non smette di ossessionarci. Un giallo irrisolto del quale ognuno conserverà la propria verità.
"Delitto Pasolini - una considerazione inattuale", scritto e diretto da Leonardo Ferrari Carissimi per CK Teatro, ripercorre la memoria di quella mattina di novembre in cui si spense la voce del Poeta friulano. È lo stesso Ferrari a narrare nelle vesti di un giovane aspirante scrittore che sognava di essere come Pasolini; racconta, di quel che è stato, di quelle venti mila lire offerte da Pasolini ad un giovane romano per "farsi dare una toccatina"; poi, il mistero, la fine, il massacro. La scena è spaccata in due: le lamiere metalliche di un cantiere, un manifesto del PCI, la portiera di una vecchia auto, qualche copertone abbandonato, due attori ai due lati del palco. Si ripercorrono i fatti, le teorie, le mistificazioni e i complotti, le verità apparenti e quella che, a dire di Giuseppe Zigaina amico pittore di Pasolini, è l'unica verità: Pasolini organizza la propria morte per esprimere ciò che altrimenti sarebbe rimasto inespresso, attraverso il proprio corpo inerme il poeta ha voluto ricercare un nuovo linguaggio, realistico e mitico al tempo stesso. È questa la stessa verità a cui vuole giungere lo spettacolo, alternando alla narrazione intermezzi tratti dalle stesse parole del Poeta. Una voce registrata avvolge la sala magicamente buia, lo spirito di Pasolini rivive per mezzo delle sue parole e di una proiezione su telo bianco sul quale appariva l'iconografia pasoliniana coi suoi tipici occhiali da sole. È allora così che andarono le cose? Pasolini vide la propria morte? Questo è ciò che - oltre dalla tesi dell'amico Zigaina - emerge dai versi pasoliniani: vide la propria morte, la immaginò, si sentiva vicina ad essa e finì profeticamente come egli stesso aveva sognato. Amava la vita dissero a sinistra, la sua era una voce scomoda; era uno sporco frocio comunista che andava in giro a scoparsi giovanotti per quelli di destra; era ed è una superstar, come James Dean, per Leonardo Ferrari Carissimi.

Far rivivere attraverso il linguaggio teatrale l'ipotesi di una morte mistica è ciò che Ck Teatro ha voluto trasmettere, o ha tentato di trasmettere. Di fatto, l'intera rappresentazione manca di numerosi elementi per far vivere con forza la storia. Voleva essere una speculazione intellettuale; non lo è stata, riducendosi piuttosto ad una monocorde cronistoria di fatti già noti. Elencazione di quel che gli uni e gli altri dicono, contrapposto a quel che gli uni e gli altri rifiutano. Staticità, vibrazioni che mancano, narrazione blanda e ridondante, il fascino del mistero che si spegne come un fuoco in assenza di combustibile. Il teatro di narrazione non è mai contraddistinto da grande azione, l'azione è dettata dalla parola e se la parola non detta l'azione tutto diviene statico, vacuo, spento. Le stesse parole di Pasolini, tratte da poesie come Frammenti alla Morte e Ballata delle Madri (diligentemente scelte), producono cacofonie, distorte da una voce che pare quella delle omelie domenicali; la proiezione distrae, si prende l'attenzione che meriterebbero i versi e l'unica soluzione è chiudere gli occhi per non farsi rapire dal fantasma proiettato sulla scena. Un esperimento da rivedere e d'arricchire: manca infatti, una reale indagine, una forza espressiva che renda reale - almeno sulla scena - quella che è soltanto un'ipotesi. Forse andava posta più attenzione al testo, alla ricerca, per colmare quel vuoto narrativo e ricucire così, quel fil rouge spezzato tra la narrazione e l'audio poetico che avrebbero dovuti fondersi in un tuttuno unitario: un'unica, grande, ipotesi espressiva che assumesse la forza della verità.

Tuttavia, non mi sento di sconsigliarvi questo spettacolo; questo perché, sebbene non si sia prodotto un risultato eccellente, va sempre sostenuto il teatro, sostenuto e criticato, perché solo così si raggiunge una piena maturazione. Inoltre, non c'è spettacolo teatrale che non possa essere preferito alla televisione.

Recensione a cura di Matteo Di Stefano

Delitto Pasolini - una considerazione inattuale

Waiting for Superstar

scritto e direto da Leonardo Ferrari Carissimi e Fabio Morgan.
Con: Leonardo Ferrari Carissimi, Fabio Morgan e Anna Favella.

Teatro dell'Orologio, via dei Filippini 17/a, Roma.
Da venerdì 15 al 24 ottobre.
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martedì 19 ottobre 2010

Vi presento un blog amico


Saper usare la penna, a volte, è come saper usare la spada. Ci sono persone che sanno far vibrare la penna proprio come fossero spadaccini professionisti. Conosco poche persone che hanno una tal dote. Piacerebbe anche a me saper dare dei grandi colpi di penna; a volte ci riesco, altre no. È comunque un'operazione difficile. Ci sono persone invece, che sanno far questo con assoluta naturalezza, sembrano nati con la penna in mano e pertanto sanno farne l'uso che preferiscono: sono giocolieri della parola, smontano e rimontano i discorsi a loro piacimento; logica e proprietà linguistiche si fondono creando effetti d'alta classe, eleganti, con totale naturalezza. Poi ti congratuli e loro ti rispondono che in fondo non hanno fatto niente di straordinario. Hanno forse un dono inconsapevole o si divertono a farne uso mascherando inconsapevolezza? E noi, umilmente poggiamo la nostra penna leggendo quella altrui, sorridendo ad ogni colpo, arrossendo dinanzi alla precisione chirurgica con la quale cuciono i loro discorsi, anche quando sembrano buttati casualmente in pasto al lettore mentre invece nascondono la più elegante delle trasposizione dalla logica mentale alla forma scritta. È con questo breve preambolo che voglio presentarvi la nascita di Raddoppiamento Fonosintattico, blog non mio, ma del quale conosco colui o colei che ne cura l'evolversi (e di cui non mi azzardo a svelarne l'identità).
Buona Lettura.
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lunedì 18 ottobre 2010

Il cimitero degli elefanti.


Una commedia amara di noi stessi quella che va in scena all'Auditorium Vallisa di Bari. Nicola Valenzano, regista e attore della compagnia locale Badathea, porta in scena dal 21 al 24 ottobre "Il cimitero degli elefanti" di Lilli Maria Trizio, vecchia conoscenza dei palcoscenici romani dove ha diretto per dieci anni il piccolo teatro Aut Aut.

Lo spettacolo focalizza l'attenzione sul declino della poesia e della filosofia che affligge il nostro tempo, nel nome di una concettualizzazione leggera dei grandi temi per renderli accessibili a masse sempre crescenti. Un obiettivo irrealizzabile, perché per poterlo raggiungere è necessario un impoverimento del linguaggio, un modo di comunicare più scarno, leggero, semplice, che si apra alle masse e alla collettività. Una ricerca di sapere collettivo che si tramuta in un impoverimento dello stesso e dei suoi canali. La poesia si appiattisce, nulla di nuovo viene creato, l'impresario si affida al remake: è proprio da qui, da questa amara presa di coscienza che nasce il cimitero degli elefanti. Padrona è e sarà la televisione, mostro che cannibalizza la cultura, l'arte, la forza espressiva del genio creativo. Lo spettacolo vede protagonista un giovane ragazzo, sospinto da una gran voglia di scrivere e sapere; diversi personaggi incontrerà sul proprio cammino (un editore, la figlia scrittrice, Omero, Montale, un impresario ed un filosofo con sua moglie), ma finirà anche lui il suo viaggio nelle fauci mediatiche della regina televisione. Una commedia dalle amare conclusioni, dai risvolti nostalgici per una grandezza che va di giorno in giorno affievolendosi. I grandi poeti e filosofi diventano ormai evanescenze in un mondo dove sempre più coscienze vengono fagocitate da quell'illusionistico bagliore, leggero, collettivo, divoratore di culture.

Il cimitero degli elefanti
di Lilli Maria Trizio

Regia di Nicola Valenzano
Compagnia Teatrale Badathea

Interpreti: Marco Pezzella (Il ragazzo), Saverio Desiderato (L’Editore), Carla Bavaro (La Ragazza), Leonardo Vasile (Omero), Giambattista De Luca (Montale), Fabrizio Fallacara (Impresario), Annamaria Vivacqua (Moglie del Filosofo), Francesco Colonna (Danzatore), Debora Traversa (Danzatore), Marika Mascoli (Danzatore). Le coreografie sono di Alessandra Lombardo e le musiche di Antonio Piscopello.
Costumi:Ideateatro.

Auditorium Vallisa, Bari
Strada Vallisa 2 (centro storico)
ore 21.00
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venerdì 15 ottobre 2010

Il mendicante


a Mary

Non voglio soldi
ma sogni,
un estinto sole
colto da una pozza
porto nel taschino

Sogni,
chi ne ha di più?

Raccatto scarti,
dei disillusi visi
faccio collane
che dono per strappare
alle dame i sorrisi.

Sogni,
ne avete ancora?

Non rubo
esploro macerie
per scovare parole
e maschere da indossare
davanti a uno specchio.

Sogni,
dei vostri son vivo!

di Matteo Di Stefano(nell'immagine Il Vecchio chitarrista cieco di Pablo Picasso)
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martedì 12 ottobre 2010

Feltrinelli e Legambiente mettono a fuoco il pianeta!




"Mettere a fuoco il pianeta" non ha lo stesso significato di "dare fuoco al pianeta"; vuol dire piuttosto focalizzare l'attenzione sulla terra, sentire il suo respiro asmatico, ricercare forme di comunicazione e commercio finalizzati al raggiungimento di sostenibilità e nuovi modelli di sviluppo.
Proprio questo è l'obiettivo dell'iniziativa promossa da La Feltrinelli e Legambiente. A partire dal 13 Ottobre fino al 15 Novembre, si svolgeranno all'interno dei punti vendita Feltrinelli incontri, dibattiti e proposte sulla sostenibilità. Per avere un quadro dettagliato basta andare sul sito laFeltrinelli.it e avere una panoramica generale dell'evento nelle varie città.

Un'iniziativa importante, che vede tra l'altro il lancio degli scaffali della solidarietà, del quale però non si sa ancora molto sebbene un qualcosa sia vagamente intuibile.
Il 31 ottobre invece, sarà certamente la giornata più importante dell'evento. La Feltrinelli infatti, per ogni prodotto venduto destinerà 30 centesimi per piantare nuovi alberi a Pollica (Sa), nel Parco del Cilento, portando così avanti la battaglia dell'ex Sindaco Angelo Vassallo rimasto ucciso in un agguato. Un'iniziativa che, se dovesse portare buoni frutti, potrebbe essere reiterata in altre occasioni, istituendo magari in futuro una giornata nazionale che coinvolga tanti altri editori. Far coesistere teoria e pratica della sostenibilità, attraverso la restituzione alla terra di una porzione di ciò che viene preso: infatti, quel libro aperto sulle vostre ginocchia, un tempo era un albero ed è senz'altro giusto che gli editori si facciano promotori di attività di riforestazione (e non solo di modelli teorici in formato cartaceo). Si potrebbe allora canticchiare: per fare un libro ci vuole un albero, per fare un albero ci vuole un libro.



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lunedì 11 ottobre 2010

La campana incrinata - La Cloche fêlée - The Flawed Bell

Com'è amaro e dolce, nelle notti d'inverno,
accanto al fuoco che palpita e fuma, ascoltare
i ricordi lontani elevarsi lentamente
al rintocco di campane che suonano nella nebbia!

Felice la campana dalla gola vigorosa
che, pur vecchia lancia fedelmente,
piena e viva, il suo grido religioso
come un vecchio soldato sotto la tenda all'erta!

Io no, io ho l'anima incrinatga; e quando annoiata
lei vuole riempire l'aria fredda delle notti con i canti,
capita spesso che la sua voce fievole

sembri il pesante rantolo d'un ferito dimenticato
in un lago di sangue, sotto un cumilo di morti,
che muore, senza muoversi, tra sforzi immensi.

- Charles Baudelaire, I Fiori del Male
(pubblicata il 9 aprile 1851 in "Le Messager de l'Assemblée")


Versione originale

La Cloche fêlée

II est amer et doux, pendant les nuits d'hiver,
D'écouter, près du feu qui palpite et qui fume,
Les souvenirs lointains lentement s'élever
Au bruit des carillons qui chantent dans la brume.

Bienheureuse la cloche au gosier vigoureux
Qui, malgré sa vieillesse, alerte et bien portante,
Jette fidèlement son cri religieux,
Ainsi qu'un vieux soldat qui veille sous la tente!

Moi, mon âme est fêlée, et lorsqu'en ses ennuis
Elle veut de ses chants peupler l'air froid des nuits,
II arrive souvent que sa voix affaiblie

Semble le râle épais d'un blessé qu'on oublie
Au bord d'un lac de sang, sous un grand tas de morts
Et qui meurt, sans bouger, dans d'immenses efforts.

- Charles Baudelaire, Le Fleurs du Mal


Versione inglese

The Flawed Bell

It is bitter and sweet on winter nights
To listen by the fire that smokes and palpitates,
To distant souvenirs that rise up slowly
At the sound of the chimes that sing in the fog.

Happy is the bell which in spite of age
Is vigilant and healthy, and with lusty throat
Faithfully sounds its religious call,
Like an old soldier watching from his tent!

I, my soul is flawed, and when, a prey to ennui,
She wishes to fill the cold night air with her songs,
It often happens that her weakened voice

Resembles the death rattle of a wounded man,
Forgotten beneath a heap of dead, by a lake of blood,
Who dies without moving, striving desperately.

— William Aggeler, The Flowers of Evil (Fresno, CA: Academy Library Guild, 1954)
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martedì 5 ottobre 2010

La Locanda

...il vento spegne le candele e ravviva il fuoco.

Raccontami
della tua locanda
degli uomini soli
dei loro inchini
su fascinose mani.

Matteo Di Stefano
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Essenzialità in pochi versi



Senza Titolo (1932)


Quando ogni luce è spenta
E non vedo che i miei pensieri,

Un'Eva mi mette sugli occhi
La tela dei paradisi perduti.

___________________

Preludio (1934)

Magica luna, tanto sei consunta
Che, riempendo il slenzio,
Poggi sui vecchi lecci dell'altura,
Un velo lubrico.


___________________

Silenzio Stellato (1932)

E gli alberi e la notte
Non si muovono più
Se non dai nidi.


Giuseppe Ungaretti, da Sentimento del Tempo (1919-1935)
Presenti nell'antologia Vita d'un Uomo.



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mercoledì 29 settembre 2010

Ex Amleto di Roberto Herlitzka


E pensare che mai nessuno gli aveva offerto di interpretare Amleto. Il sommo Amleto, croce e delizia dell'attore, il personaggio che o ti brucia una carriera o t'innalza a gloria eterna. Incubo e amore. Amleto lo vediamo ogni anno in cartellone: dai laboratori alle accademie, dai grandi teatri ai piccoli teatrini di provincia; lo vediamo in chiave classica, moderna, rivisitato, sia in una veste formalmente fedele alla gravità della storia, sia una veste più parodistica (come in Amleto a pranzo e a Cena di Oscar De Summa). Tutti vogliono fare Amleto, pochi hanno la stoffa per farlo realmente. Capita però, a volte, che chi non ha la stoffa possiede però la faccia tosta di presentarsi di fronte al pubblico e dire "io sono Amleto"; può capitare anche, che chi quella stoffa, quella padronanza necessaria a domare l'inquieto Amleto ce l'ha, gli venga a mancare per tutta la vita l'occasione di calarsi nel personaggio dei personaggi. Roberto Herlitzka è uno di quelli che la stoffa ce l'ha, ma mai nessuno gli ha offerto la parte di Amleto, così, ha deciso di farne uno tutto suo. Il suo è un ExAmleto, perché Amleto è un giovane principe, invece Herlitzka ha la bellezza di 73 anni. Anni portati benissimo, anni che il teatro spazza via in un monologo mozzafiato nel quale il grande attore italiano si diletta nel più improbabile Amleto: uno spettacolo che vede solo le battute del principe Danese. Lui, Roberto Herlitzka, interpreta magistralmente il ruolo, si confronta con tutti e con nessuno, parla con gli altri personaggi che non ci sono, fantasmi scenici sì, ma allo stesso tempo fantasmi dello stesso Amleto. Tutti gli anni della sua carriera, tutto il repertorio di movimenti, di impostazioni vocali sciorinate in una lunga staffilata di parole, senza sbavature, senza dimenticarsi di quella sfumatura su "Livrea", senza omettere quella pausa necessaria per far tirare al pubblico un sospiro, senza ignorare il fatto che, data la gravità del personaggio, un interpretazione solitaria necessita di una certa dose di ironia per non spazientire il pubblico pagante. Quindici euro spesi bene, ma lo sarebbero stati altrettanto trenta.
Quest'uomo canuto ci mostra per una sera il teatro, col suo Amleto, desiderato forse per una carriera intera e arrivato sulla scena ad un'età che per altri significherebbe uscita dalla scena. Lui no, lui è come se fosse un novello, è come se avesse di fronte a se 50 anni di carriera ancora da percorrere (magari!) ed energie da liberare; e quando esce a prendersi gli applausi interminabili ci regala un umile inchino, quasi a voler dire "in fondo, cosa ho fatto di così straordinario?".
Le mani, formano linee perfette, le espressioni assumono molteplici forme. La scena? Una sedia, una luce puntata su essa, una spada poggiata in terra, un teschio anch'esso in terra, un leggio. Una scena spoglia, perché tanto basta a fare del buon teatro. Alla fine, quell'Amleto tanto decantato, tanto sperimentato malamente, diviente attraverso l'interpretazione di Herlitzka la migliore sperimentazione, alla faccia di quelli che credono alla sperimentazione come accozzaglia di immagini, incomprensibili visioni, insulti senza scrupoli al testo. L'ExAmleto di Herlitzka, è invece un Amleto integrale, almeno per quel che riguarda la parte principale, che alterna momenti di tensione ad altri di ironia. E diviene esperimento perché è il suo modo di comunicare Amleto; sperimentare infatti vuol dire ricercare un modo di comunicare e non, inventarsi metodi improbabili e incomunicativi. Invece ecco, per una sera, assistiamo a del buon teatro: perché come dice un altro uomo che vive di palcoscenico, seppur a livelli più dimenticati, per vedere il buon teatro non serve tanto, basta una sedia illuminata ed un attore (buono) in abito scuro.

Recensione a cura di Alessandro Giova

Visto il 28/09/2010 presso il Teatro Lo Spazio, Via Locri 42, Roma
Repliche dal 29 settembre al 3 ottobre


Autore: William Shakespeare
Regia: Roberto Herlitzka
Genere: tragedia
Compagnia/Produzione: Teatro Segreto Srl
Cast: Roberto Herlitzka


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domenica 26 settembre 2010

La città dei pigri

Potrebbe esserci un vago sentore calviniano in quello che sto per proporvi. In realtà, sembra quasi una città mancante delle Città Invisibili di Calvino. Prima di gridare al plagio però, si rifletta un poco: è possibile che un uomo scriva un racconto che ricordi quello di qualcuno. Certo, in questo caso, avendo letto le città invisibili, potrei finire presto nello scandalo. Tentativi di plagio non ce ne sono.
La città dei pigri ha un suo percorso. Nasce da riflessione su di una osservazione sulla pigrizia: nelle nostre giornate, caratterizzate da corse frenetiche spesso ignoriamo le piccole azioni. O meglio, arriviamo alla conclusione che quella piccola azione è per noi un peso infinito. La rimandiamo, e questo la aggiunge alle cose da fare nel giorno successivo. C'è il rischio, adottando questo metodo, che si accumulino cose da fare, trasformando quella piccola azione in un'ora di lavoro. Perché rimandiamo? Per fatica o per pigrizia? Essendo l'azione piccola, non possiamo definirla faticosa. Pertanto, la conclusione è: pigrizia!
Allora, mi sono immaginato un pigro ideale, moderno, completamente integrato ad una realtà, quella odierna, dove la macchina sostituisce l'uomo dal lavoro alla fantasia. Ci imprigriamo di fronte a tanta comodità, tanto da perdere la volontà di fare piccole cose (cose enormi!). Poi ho immaginato un pigro in mezzo a tanti altri pigri. Ne è venuta fuori una città di pigri, con le sue regole, le sue convenzioni o abitudini, e quell'infinità di pigrizie irrinunciabili.



La città dei pigri


Ho visitato molte città, ma nessuna finora mi ha sorpreso quanto la città dei pigri: i suoi abitanti sbadigliano tutto il tempo. Non hanno voglia di far niente, né lavorare, né svolgere le funzioni più elementari. Stanno stravaccati sul divano nel tempo libero, con il telecomando sulla pancia e, senza pulpiti o smorfie o sussulti, ammirano il paesaggio luminoso sgorgante dallo schermo. Non si alzano mai: hanno accanto una bottiglia d’acqua, qualche sacchettino di frutta essiccata e i fumatori un pacchetto di sigarette. L’accendino, solitamente poggiato sulla pancia, scivola spesso lungo il fianco; questo crea non pochi turbamenti al pigro, in quanto nell’intento di cercarlo è sottoposto a grandi sforzi. Due sono le possibilità: il pigro sente l’accendino premere sul fianco della schiena e - non facile operazione - si contorce cercando di recuperarlo senza alzarsi; prima col sinistro, poi con il destro in una posa da contorsionista. Il tutto accompagnato da sbuffi e rantoli di fatica. La seconda possibilità, consiste invece nel non aver idea di dove si trovi l’accendino, spingendo il pigro ad un’istintiva e faticosa alzata. Si guarda frastornato intorno, da una scrollata alla federa, magicamente vede riaffiorare l’oggetto tanto ambito e tra mille parole in successione, delle quali non se ne raccomanda l’uso, crolla di nuovo tra le brame cuscinose. Capita sovente, che nell’intento di cercare un accendino, il pigro incappi in una successione continua di sparizioni di oggetti: sposta il telecomando, cuscini e via dicendo. Nel fare ciò, non s’avvede che questi escono dall’orbita circoscritta dal raggio di un braccio umano: questo accadimento in genere, diviene informazione nota soltanto una volta che il pigro ha riassunto una posizione comoda. Tali inconvenienti possono turbare, e non di poco, l’umore del pigro.

Neanche le normali funzioni biologiche agiscono favorevolmente sulla volontà del pigro. Infatti, gli abitanti della città dei pigri, vanno al bagno soltanto una o due volte al giorno. Per riuscire efficacemente nella riduzione dei transiti, adottano una vera e propria strategia: non vanno mai al bagno per una funzione isolata. In genere, svolgono le due funzioni simultaneamente; ciò fa si, che nel caso si abbia un solo stimolo, si aspetta sopraggiungere anche l’altro. I gruppi più estremisti, attraverso una severa disciplina di autocontrollo, riescono spesso ad andare una volta ogni due giorni. Hanno una grandissima resistenza fisica e si recano ad espellere i propri scarti corporei soltanto quando sono spinti da forti dolori ormai insopportabili.
Per quanto riguarda l’aspetto culinario, i pigri non sono grandi amanti della cucina – o perlomeno, non amano l’aspetto del fare in cucina – pertanto non cucinano quasi mai. Quando preparano da sé la cena, mangiano pagnotte di pane a morsi, frutta che si può mangiare con la buccia, latticini non spalmabili e ortaggi crudi. Mangiano quindi, soltanto quei cibi che non necessitano di sporcare stoviglie, perché nessuno le laverebbe. Certo, si potrebbero usare piatti, posate e bicchieri in plastica, i quali necessiterebbero soltanto di essere gettati, ma ciò è da escludere perché non è consigliabile cucinare con una padella di plastica. Perciò, la maggior parte della popolazione, ordina il proprio cibo telefonicamente e questo gli viene recapitato da fattorini. Un tempo, erano presenti numerose bettole e taverne che svolgevano questo servizio. Poi, il progressivo impoltronire, ha fatto sparire queste attività. Ora il servizio è svolto dalle città vicine; le portate vengono fatte viaggiare in speciali recipienti che finiscono di cuocere le pietanze durante il viaggio. Questo è reso necessario dal grande traffico che c’è nell’ora dei pasti e, per evitare che le pietanze arrivino fredde ai destinatari, i leader del settore della ristorazione hanno messo a punto questi speciali recipienti. Si è scatenata una vera e propria guerra per servire i cittadini della città dei pigri e molte aziende, previo pagamento di una maggiorazione del 15%, offrono anche il servizio di smaltimento degli scarti.

Molte persone svolgono un lavoro da casa: chi intreccia capelli per parrucche, chi svolge attività di commercio elettronico, chi impartisce lezioni private. C'è anche, però, chi non può permettersi un lavoro da casa e quindi è costretto ad uscire. L’orario di lavoro è ridotto a cinque, è prevista una pausa di cinque minuti ogni venticinque, ottenuta dopo aspre lotte sindacali. Dopo due ore e mezza, al lavoratore è concessa una pausa aggiuntiva di 1 ora nella quale può vedere un po’ di televisione. Non avendo voglia nemmeno di vestirsi, gli abitanti di questa città, adottano diverse strategie per ridurre i propri sforzi. Molti non tolgono mai il pigiama, che costituisce una seconda pelle. Proprio per questo, sono stati studiati speciali pigiami che si adattano, sfruttando il calore corporeo, al corpo di chi lo indossa. Ciò consente di mettere i vestiti sopra il pigiama senza ingombro eccessivo. Altri invece, non usano pigiama, ma dormono vestiti in maniera tale che non debbano disperdere le energie nella vestizione. Portano per quattro o cinque giorni lo stesso abito, che viene poi gettato nella immondizia. Un gruppo altamente stravagante invece, si fa confezionare diversi vestiti di numerose taglie, per dar l’impressione che ogni giorno cambino veste; mettono ogni giorno una taglia più grande cosicché non siano costretti ogni giorno a spogliarsi per mettere un abito nuovo.
Le docce sono costituite generalmente da box spruzzanti vapore e sapone. Molti si lavano con tutti gli abiti in dosso, superando l'inconveniente del lavare separatamente gli indumenti.

Un lato positivo della città, è costituito dall’assenza di automobili – a parte quelle dei fattorini duranti i pasti. Infatti, la città è dotata di un complesso sistema di trasporti pubblici, composto da tappeti mobili trasportanti capsule monoposto; in un complicato intreccio il tappeto mobile raggiunge tutte le vie, nonché tutte le abitazioni fino allo zerbino. Quindi, gli abitanti, escono sul proprio zerbino, montando sulla prima capsula vuota disponibile. Il sistema è attivo 24 ore su 24. Nelle capsule è presente un piccolo schermo, il quale è utilizzabile sia come televisore, sia come video-chat per comunicare con i passeggeri delle altre capsule. Ogni palazzo è munito di ascensori esterni. Uno per ogni lato, collocati alle estremità angolari. Tutti gli ingressi dei piani sono esterni e collegati con l’ascensore, in quanto da tempo non si usano più ingressi centrali dove si accalcavano code di gente. Ora, ognuno può andare diretto al suo piano senza dover passare dal centro. A parte qualche vecchio palazzo, non ci sono scalinate; le fotografie delle scalinate sono raccolte in un album ed esposte nel museo telematico della città.
Ci si potrà chiedere, se in questa città di svogliati, la gente abbia voglia di morire. Come in tutte le città del mondo, la morte non è evento desiderato. Il timore più grande per gli abitanti della città, è proprio quello di dover scomodare la propria anima da posizioni agiate. Il terrore che ci sia una vita dopo la morte è molto accentuato tra gli abitanti; pensare di dover intraprendere un viaggio verso nuovi mondi, senza sapere con certezza se vi sia o meno un sistema di tappeti mobili, genera timori che spesso sfociano in scontri sociali tra credenti e non credenti. La religione ufficiale locale predica l’inesistenza di Dio e della vita dopo la morte. L’uomo nasce pigro e pertanto non può esserci un aldilà che concepisca un fare attivo. Ciò porta all’esclusione di Dio, perché se un Dio avesse creato l’uomo, questo sarebbe stato a sua immagine e, essendo la creazione un attività creativa rientrante nell’ambito del fare, questo escluderebbe l’esistenza di organismi pigri. Dato, però, che si ha una concreta testimonianza dell’esistenza di organismi pigri, ciò porta ad escludere l’esistenza di Dio. Gli atei, invece, non credono che Dio non esista: sostengono che questo creò per l’appunto l’uomo a sua immagine e somiglianza. L’uomo è nato da un non fare. Dio è a sua immagine e somiglianza, pertanto pigro: ciò significa che Dio non può aver creato l’uomo perché pigro. Proprio perché un Dio che non voglia creare è un Dio pigro, essendo inoltre l’uomo pigro, automaticamente si arriva alla conclusione che un Dio c’è, ed è pigro, ovverosia ad immagine e somiglianza dell’uomo. Tuttavia sono ancora inspiegabili i perché, un giorno, Dio scese dal suo divano per creare l’uomo. La tesi più accreditata è che si fosse perso l’accendino e, dopo un’estenuante ricerca, sia entrato in una spirale virtuosa del fare, creando così l’uomo, in una manciata di minuti. . Forse queste sono destinate a rimanere teorie, forse, la città dei pigri è destinata a diventare ricordo. Nella città dei pigri infatti, da tempo non nascono più figli. Gli uomini e le donne hanno smesso di fare l’amore. I loro rapporti da decenni sono fatti solo di parole e più nessuno ha contatti fisici con altri individui. Ci si limita a dichiararsi affetti, senza realmente pensare al sentimento che glielo fa dire. L’amore, è ormai uno scambio di cortesie: nessuno ha voglia di impegnare mente e corpo in un rapporto fisico. Oggi il più giovane abitante della città ha 47 anni e questa vede inesorabilmente diminuire il numero di abitanti. Non si vedono mai nemmeno forestieri, perché questi temono di essere contagiati dalla pigrizia che affligge la città. Non si sa quando tutto questo abbia avuto inizio. Si dice sia iniziato tutto da una sciocchezza: un piatto non lavato, un’assenza a scuola o una scelta non fatta. E da lì, piatti che s’accumulavano e menti decadenti. La pigrizia è andata allargandosi, contagiando un’intera generazione, coinvolgendo tutte le attività degli uomini. Si sono inventati macchinari, passatempi da divano, robot, tutto per venire incontro alle lacune lasciate dai pigri che ogni giorno hanno preteso di più. Le loro volontà si sono spente, fino al completo annullamento, fino a rinunciare alla madre di tutte le attività: rimarrà un ultimo uomo, troppo pigro perfino per soffrire di solitudine, prima del fiorire di una nuova era, di polveri e ricordi.



di Matteo Di Stefano
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venerdì 17 settembre 2010

1000 visite e una finestra stretta.


Riflessi al margine compie 200 giorni oggi! E proprio nel giorno in cui festeggia il suo complegiorno taglia un importante traguardo: le sue prime 1000 visite! Un grazie a tutti i visitatori. Per l'occasione, anziché una poesia, riporto il dialogo conclusivo di un ambiguo racconto di Fernando Pessoa dal titolo La finestra stretta, racconto prensente nella raccolta "Racconti dell'inquietudine"

........
"Il ragionatore, se è davvero un ragionatore, ha lo scrupolo dell'astrazione, lo scrupolo di eliminare quanto più possibile la sua personalità. Ce l'ha naturalmente, perché è ragionatore per temperamento e non per volontà. Ma, se questa è, in effetti, la corretta strada del ragionamento, a volte è la strada scorretta. Il ragionatore elimina le intuizioni, e fa bene; ma a volte le intuizioni sono giuste e in tal caso ha fatto male. Il ragionatore elimina i preconcetti del temperamento o della professione, e così deve fare; ma a volte questi preconcetti lo porterebbero sulla buona strada e, quando li abbandona, abbandona anche quella buona strada. Qui Abìlio, quando ragiona, tenta di trasformasi, spontaneamente, in una macchina per ragionare. Sveste l'Abilio, sveste il Fernandes, sveste il Quaresma; sveste l'avere quaranta e rotti anni - quarantotto, no?"
Quaresma annuì col capo.
"... Sveste l'essere un medico, sveste l'abitare a Rua dos Fanqueiros - insomma, signori miei, si separa da tutto ciò. Ora, in questo caso si è comportato come in tutti gli altri, e in una cosa ha fatto male. Ha fatto male a dimenticarsi di essere un medico. Se gli fosse passato per la testa -cosa che non poteva succedere - che la finestra stretta poteva essere considerata dal punto di vista medico, la soluzione sarebbe stata a portata di mano, a portatissima, come direbbe un ragazziono che ho conosciuto tempo fa."
"Ma," intervenne Guedes "come può una finestra stretta essere considerata da un punto di vista medico?"
"Come fenomeno di simulazione o finzione isterica"
Da La finestra stretta di Fernando Pessoa


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mercoledì 15 settembre 2010

Malinconia

Accarezzo banchi di nuvole
fluttuanti di malinconie.
Leggendo le vecchie parole
rivedo musicali sorrisi.

Ci meritiamo quell'infinito
o il piombo di queste notti?

Quanto lunghi i tempi appaiono
distanti d'appena un battito
nei respiri di lune straniere,
di luci accese negli occhi.

Nel buio una mano m'avvolge
le dita han profumo d'ortica.

E come una morsa sul cuore
un urlo, sì flebile lamento
inquietante spreme Tenebre
gocciolanti d'amare voglie.

Matteo Di Stefano
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martedì 14 settembre 2010

I Seduti - Les assis di Arthur Rimbaud

Per comprendere appieno questa poesia, bisogna che vi si racconti una piccola storiella. Rimbaud frequentava il secondo liceo ed era solito marinare la scuola; si perdeva in lunghe passeggiate, e, quando si sentiva stanco, si recava alla Biblioteca Municipale di Charleville chiedendo volumi malsonanti per le orecchie del vecchio bibliotecario. Libretti orientali, antichi volumi scientifici, opere di Favart. Il vecchio, brontolando, bofonchiava al poeta monello di tornare ai suoi studi classici, in ogni caso apprezzati da Rimbaud. Da qui nasce i seduti: una vendetta nei confronti di quel vecchio "barbagianni" brontolone che sembra far l'amore con la sedia.

I Seduti - Arthur Rimbaud

Neri di cisti, butterati, gli occhi cerchiati di verde,
le dita gnoccolute rattrappite sul femore,
il sincipite cosparso di repellenti bozzi;
come le infiorescenze lebbrose dei muri vecchi,

hanno innestato in amori epilettici
la bizzarra ossatura agli scheletri neri
delle sedie; i loro piedi s'allacciano
a quei pioli rachitici, mattina e sera!

Questi vecchi si son sempre intrecciati alle lor sedie
sentendo i soli ardenti lucidargli la cute,
o, con l'occhio fisso al vetro dove fondono le nevi,
tremando col doloroso tremito del rospo.

E le Sedie usano loro dei favori: patinata
di bruno, la paglia cede ai lati delle reni;
l'anima dei vecchi soli si riaccende, racchiusa
in quelle trecce di spighe dove fermentava il grano.

Ed i Seduti, coi denti alle ginocchia, verdi pianisti,
tambulerrando colle dita sotto la sedia,
si ascoltano sciabordare tristi barcarole
e i loro testoni dondolano in un sentimentale abbandono.

- Non li fate alzare, per carità! È una tragedia...
Sorgono brontolando come gatti puniti,
aprendo le scapole lentamente e con rabbia;
i pantaloni sbuffano sui sederi rigonfi.

E poi li sentite picchiare le teste calve
sui muri scuri e strascicare i piedi,
i loro bottoni sono delle pupille selvatiche
che vi arpionano lo sguardo dal fondo dei corridoi!

Inoltre hanno una mano invisibile che uccide:
al ritorno il loro sguardo filtra il nero veleno
che offusca l'occhio mesto della cagna bastonata,
e voi sudate, stretti in un atroce imbuto.

Si risiedono, con i polsi che navigano negli sporchi polsini,
e pensano a chi li ha fatti alzare,
e, da mattina a sera, grappoli di bargigli
s'agitano da morire sotto i menti sparuti.

Quando l'austero sonno abbassa le loro visiere,
sognano, con la testa sul braccio, di fecondare sedie,
veri amorini di seggiole neonate
che circondino altere scrivanie.

Fiori d'inchiostro, sputando pollini a virgola,
li cullano, accoccolati sopra i calici
come un volo di libellule sull'orlo dei giaggioli.
- E il loro membro s'irrita con le spighe barbute.


Versione Originale

Les assis - Arthur Rimbaud

Noirs de loupes, grêlés, les yeux cerclés de bagues
Vertes, leurs doigts boulus crispés à leurs fémurs
Le sinciput plaqué de hargnosités vagues
Comme les floraisons lépreuses des vieux murs ;

Ils ont greffé dans des amours épileptiques
Leur fantasque ossature aux grands squelettes noirs
De leurs chaises ; leurs pieds aux barreaux rachitiques
S'entrelacent pour les matins et pour les soirs !

Ces vieillards ont toujours fait tresse avec leurs sièges,
Sentant les soleils vifs percaliser leur peau,
Ou, les yeux à la vitre où se fanent les neiges,
Tremblant du tremblement douloureux du crapaud

Et les Sièges leur ont des bontés : culottée
De brun, la paille cède aux angles de leurs reins ;
L'âme des vieux soleils s'allume emmaillotée
Dans ces tresses d'épis où fermentaient les grains

Et les Assis, genoux aux dents, verts pianistes
Les dix doigts sous leur siège aux rumeurs de tambour,
S'écoutent clapoter des barcarolles tristes,
Et leurs caboches vont dans des roulis d'amour.

- Oh, ne les faites pas lever ! C'est le naufrage...
Ils surgissent, grondant comme des chats giflés,
Ouvrant lentement leurs omoplates, ô rage !
Tout leur pantalon bouffe à leurs reins boursouflés

Et vous les écoutez, cognant leurs têtes chauves
Aux murs sombres, plaquant et plaquant leurs pieds tors
Et leurs boutons d'habit sont des prunelles fauves
Qui vous accrochent l'oeil du fond des corridors !

Puis ils ont une main invisible qui tue :
Au retour, leur regard filtre ce venin noir
Qui charge l'oeil souffrant de la chienne battue
Et vous suez pris dans un atroce entonnoir

Rassis, les poings noyés dans des manchettes sales
Ils songent à ceux-là qui les ont fait lever
Et, de l'aurore au soir, des grappes d'amygdales
Sous leurs mentons chétifs s'agitent à crever

Quand l'austère sommeil a baissé leurs visières
Ils rêvent sur leur bras de sièges fécondés,
De vrais petits amours de chaises en lisière
Par lesquelles de fiers bureaux seront bordés ;

Des fleurs d'encre crachant des pollens en virgule
Les bercent, le long des calices accroupis
Tels qu'au fil des glaïeuls le vol des libellules
- Et leur membre s'agace à des barbes d'épis
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domenica 12 settembre 2010

Spettacoli e pubblicità non occulta.

Cosa fare una domenica sera di fine estate, dopo essersi goduti le vacanze, distratti, abbronzati, dimenticati del mondo circostante? Cosa fare per esorcizzare il ritorno, tra lavoro polemiche politiche e reality show che si riprendono l'angoscioso posto nelle coscienze da salotto? Si chiude tutto e ci si prende un'ora di libertà. E un'ora di libertà è quella che si prenderà Claudio Miani: al Sinergy Art Studios (via di porta labicana 27, Roma) va in scena "La mia ora di libertà", di e con Claudio Miani. Cosa aspettarsi? Chi può dirlo. Provate a fare un giochino: immaginate questo governo, immaginate la crisi, immaginate pupazzi da piccolo schermo, il trush televisivo. Immaginate ora che voi, stufi di tutto questo, possiate prendervi un'ora per dire quello che pensate e dirlo liberamente; un'ora per togliersi sassolini, un'ora per liberarvi delle maschere e delle resistenze. Un'ora per tirar fuori tutto quello che avete in corpo e poi dire: ecco, ora mi sento meglio. Probabilmente è l'ora di libertà che il vostro dirigente di partito non vorrebbe mai farvi ascoltare. Appunto per questo stasera, una domenica di fine estate, mentre oscillanti vi angosciate tra politica e reality, prendetevi un'ora di libertà anche voi.
Il biglietto ha un costo ridotto di 5€ e l'incasso sarà devoluto all'associazione onlus L'AFRICA CHIAMA per l'affiancamento del progetto ASILO NIDO KARIBUNI WATOTO. Un motivo in più per andarci. Info e prenotazioni: tel. 06.89538915 – 328.7133184.

Sempre al Sinergy Art, tra settembre e ottobre partiranno numerosi corsi (Regia Cinematografica; Sceneggiatura Cinematografica; Critica Cinematografica; Officina di Scrittura Creativa; Atelier di dizione; Fotografia digitale di base; Teatro per bambini; Laboratorio di narrazione; Inglese per bambini; Inglese per adulti; Corso di Hatha Yoga; Corso di Training Autogeno; Corso di Tecniche di rilassamento.) Nello specifico segnalo due lezioni gratuite che si terranno sabato 18 alle 17 e lunedì 20 alle ore 21. La prima lezione riguarda un labotorio di improvvisazione urbana che avrà durata di circa 4 mesi e alternerà lezioni al chiuso e all'aperto; la seconda invece, è la prima lezione del Biennio Accademico di I° livello dell’Accademia di Recitazione “Piccolo Teatro dell’Assurdo” (con attestato finale). Il corso avrà una durata di 9 mesi. Entrambi hanno un costo di 50 euro mensili.
Per maggiori info: Sinergy Art


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