Pagine


lunedì 27 dicembre 2010

Il più bello dei mari - Nazim Hikmet

(nell'immagine: Mare di nebbia di Friedrich)


Il piú bello dei mari
è quello che non navigammo.
Il piú bello dei nostri figli
non è ancora cresciuto.
I piú belli dei nostri giorni
non li abbiamo ancora vissuti.
E quello
che vorrei dirti di piú bello
non te l’ho ancora detto.

Nazim Hikmet
da Poesie d'amore


Leggi tutto...

mercoledì 22 dicembre 2010

Poesia d'amore: Figlio Evitato di Alberto Bevilacqua

... per deliberato amarti ...
(nell'immagine: Nudo Blu di Picasso)

Si può amare un figlio mai avuto? Sì, ed è forse l'atto d'amore più grande che può esistere, perché è un atto consapevole del mondo circostante, è un rifiuto a concepire un'esistenza in un mondo ammuffito. Una prova d'amore contro l'egoismo del concepire per se stessi senza la valutazione del futuro del concepito. Felicità o dolore? Tormento o estasi? Cosa ci attende al momento della nostra nascita? La bilancia pende sempre un po' di più verso il baratro, le debolezze investono la forza e nel gioco delle probabilità l'infelicità ha un peso maggiore. È quando si diventa consapevoli del male del mondo, del tremendo supplizio dei vivi e del dolore cui si può andare incontro senza che si possa intervenire in alcun modo sulla rotta, è in quel momento che l'essere consapevole muta il suo amore in una scelta di non concepimento; un atto estremo d'amore che nutre col dolore dell'anima un figlio desiderato e mai avuto.
Figlio evitato è tra le più belle poesie di Bevilacqua, carica di passione, sentimento, dolore e amore. Una poesia dedicata a quel figlio che il poeta avrebbe voluto, che stringe a se come fosse di carne viva ma è solo l'essenza dei suoi rimpianti. Un desiderio che contrasta con l'amara constatazione d'una esistenza difficile, un duro vivere che viene risparmiato col più altruistico (e incompreso) atto d'amore. Non mi stupisce che questa poesia sia tra le più care al poeta stesso.


"Ci fu il piccolo enigma del Figlio evitato. Riflettevo che, nel bilancio negativo di molti aspetti della mia vita, il male di mia madre si era imposto. Con effetti radicali, alcuni devastanti. Dovevo riconoscerlo con rassegnata amarezza. Avevo pagato i conti che lei aveva lasciato in sospeso dopo essere stata dilapidata. In me si era fatto ossessivo il pensiero che non ero padre, traumi e contagi materni mi avevano impedito di esserlo. Ne era nata una poesia. Fra le mie che considero più belle. L'avevo dedicata al figlio che non avevo avuto... La tenevo sul mio tavolo di lavoro. Andavo a rileggerla per provarne una pietà tutta mia, per farmi del male. Un giorno, il foglio con la poesia scomparve... Ho ritrovato il foglio con la poesia tempo dopo, fra le pagine del Diario di mia madre."


FIGLIO EVITATO

... è nello sguardo chiaro
che potresti avere, è nel tuo guardarmi
furtivo, mentre sono distratto,
che mi capia di pensarti,
figlio
che non ho voluto per deliberato amarti

- potrebbero, se tu fossi esistito
essere le nostre vite
strette l'un l'altra
come piccole scimmie freddolose
al vento di questa sera
... ti avrei al mio fianco a camminare
in false distanze, scorci
di pensiero anch'esso di prospettico inganno
... o forse
mi potresti persino detestare

- avresti potuto
essere il mio orgoglio - dicono -
ma il mio orgoglio è l'averti risparmiato
l'ora della penombra
che affila la lama:
tu solo puoi dire
se fu errore e in che misura
non averti dato in pasto alla specie
... tu solo capire
che con la forza del vuoto ti ho piena,
mia statuina sacra,
mio geranio a cui do acqua
alla primora del giorno,
e giorno non c'è che mi dimentichi

... ci troveremo là dove si sta nel prima
e al prima si torna,
rispondimi: perché avrei dovuto
infliggerti devianze di una via
per un calvario breve?
- mi vedrai un giorno apparire,
mi lascerai, io spero,
il posto a sedere
accanto a te: ricordati, se puoi,
di toccarmi almeno le mani
nelle mie mani le piaghe
del non averti
mai accarezzato la fronte da vivo

... delle primavere, delle donne che avresti
potuto avere
è fatta questa vastità della mia solitudine;
mi vanto solo di questo:
non ho buttato nel pattume nessuno.


Alberto Bevilacqua

poesia presente nella silloge
interpretando in versi la detenzione di mia madre nell'ospedale psichiatrico di C.
e in Le Poesie - Oscar Mondadori -





468x60_generico_gif
Leggi tutto...

giovedì 16 dicembre 2010

Berlino


Ho visto candida
la neve stendere gelidi manti,
le strade scaldarsi di uomini
mille impronte fiammeggiare
al focolare del rosso vino.

Ho visto sguardi pazientare
davanti lunghe indecisioni,
comunione d'istinti e umanità.

Ho visto gente diversa
trovare un accordo comune
nel suono d'una parola,
dita intirizzite sulle mappe
indicare dubbie destinazioni.

Ho visto metropolitane,
fermate ognuna diversa
mutare il movimento in arte.

Ho visto gallerie illegali
tra umide decadenze
serbare autentici artisti
e pubbliche mostre fatue
ostentate presunzioni osannare.

Ho visto,
come dall'oppressione nascano vivi
colori e emozioni contro la spada.

Ho visto volti assassini
con mani tese ai morti
innalzare marmorei silenzi
ai solenni templi della Storia.

- Ho udito,
miei connazionali parlare
d'una Patria in fiamme
senza nostalgia
bevendo,
ho udito
infiniti strepiti lontani
sfiorar lievemente l'anima,
e sì distante m'è parsa
quella terra di fuochi
che solo sentivo il calpestio
di quattro passi nella neve.

Matteo Di Stefano
(nell'immagine un dipinto di
Alexander Rodin)
Leggi tutto...

martedì 7 dicembre 2010

L'Amleto attualizzato

Questo curioso riadattamento in chiave moderna del celebre monologo di Amleto l'ho trovato all'ultima pagina del secondo numero di To Be, rivista gratuita di recente formazione dedicata al teatro. La rivista, distribuita nei teatri e non so in quali altri posti, per ora è presente solo a Roma e nel Lazio. Il pezzo viene proposto come traduzione apocrifa e ci mostra un Amleto totalmente nuovo, contemporaneo; prendendo come spunto un personaggio che non citeremo, questa traduzione fornisce la prova concreta della spiccata universalità del linguaggio shakespeariano.


Entra Amleto

Essere o non essere, questo è il problema:
se sia più nobile soffrire, nell'intimo del proprio spirito,
le pietre e i dardi scagliati dall'ex alleato
e cofondatore, o imbracciar l'armi, invece,
contro i giudici nemici, e, combattendo contro i processi,
metter loro le fini. Sparire. Volare. Nient'altro.
E nell'antigua villa poter calmare
i dolorosi battiti del cuore, e le mille offese dei giornali
di cui fu vittima la mia carne: quest'è una conclusione
che desidero notevolmente. Sparire, giacere.
Dormire, magari trombare. È proprio qui l'ostacolo:
perché in quel partito d'amore,
tutti i sogni che possan sopraggiungere
quando noi ci siamo liberati dal tumulto,
dal viluppo di questa vita morale,
dovranno indurci a riflettere. È proprio questo scrupolo
a dare alla sventura una vita così lunga!
Perché, chi sarebbe capace di sopportare
le frustate dei secondi fini,
i torti dei giornali e delle televisioni, gli oltraggi dei travagli,
le sofferenze dell'amore partito e non corrisposto,
gli attacchi della legge,
l'insolenza dei giudici e lo scherno che il mio merito
riceve fin dai sodali, se potesse egli stesso
dare a se stesso la propria quietanza
con un nudo pugnale? Chi s'adatterebbe a portar cariche
di presidenze di consiglio o addirittura di repubblica,
a gèmere e sudare sotto il peso d'una vita grama,
se non fosse che la paura di sentenze prima della morte
- quel territorio inesplorato dal cui confine
non torna finora indietro nessun viaggiatore -confonde
e rende perplessa la volontà,
e ci persuade a sopportare le maldicenze
che già soffriamo piuttosto che accorrere verso altri mali
di cui non sappiamo nulla. A questo modo,
tutti ci rende vili la coscienza,
e l'incarnato natuale della risoluzione
è reso malsano dalla pallida tinta del cerone,
e imprese e leghe di gran conseguenza,
deviano purtroppo in mille correnti,
e perdono il nome d'azione. Vota, ora:
o bella Democrazia! Ninfa, nelle tue preghiere
intercedi per me, peccatore.
Leggi tutto...

domenica 5 dicembre 2010

Fiori di Dama

ad una dama addormentata

Ci bastava esser conoscenti,
conoscersi non era abbastanza.
Con le lettere interrogammo
cuore, testa, mezze strade,
tra gli uni e gli altri: sorrisi.
Era poca cosa la simpatia
dei Fiori di Dama colsi
sospirante i notturni petali.


Invitammo i cuori a rischiare,
dove crescevano ortiche
mani curarono margherite,
quanto piacevole fu sentire
il gusto nuovo dello scoprirsi.

Dicembre sui laghi volgemmo
regnando su isole di pace
ma sì pochi parvero i giorni
ch'esilio e fuga fu la Catalogna.
Con un sorriso da birbanti
voltati senza scendere
- per pigrizia o diletto -
guardammo quelle ripide scale:
come Fiori di Dama ovunque
sbocciarono le nostre notti
il tempo fece di noi un'alcova.

A scoter chiome gialle
e pungere disfatte lenzuola
con beffarde raffiche
l'opaco autunno venne,
e fu un qui dove quando
ad interrogare il giorno morente,
arrivò, senza avvertire,
piacevolmente inaspettato
il tempo delle brandine.

Matteo Di Stefano(nella foto il bacio di Munch)
Leggi tutto...

lunedì 8 novembre 2010

Brevi istanti

Quel tempo fatto di noi,
intimi sognatori nelle notti
e nei mattini troppo giovani,
che si fan ladri di briciole
sui nostri affamati palmi.

Della mia sete i sorsi
del mio freddo i lembi
dei miei giorni le notti,
senza velar gioia dividerei
con te, Dama idillica.

È troppo presto per il treno
e troppo tardi per trattenersi
sulle labbra appena sfiorate,
già quella chioma il vento
lambisce, nostalgica carezza.

di Matteo Di Stefano
Leggi tutto...

giovedì 28 ottobre 2010

Una dedica a.....


....Bruno Vespa e tutti i suoi fratelli....



Non gridate più



Cessate d'uccidere i morti,
Non gridate più, non gridate
Se li volete ancora udire,
Se sperate di non perire.


Hanno l'impercettibile sussurro,

Non fanno più rumore

Del crescere dell'erba,

Lieta dove non passa l'uomo.


Giuseppe Ungaretti
da Il dolore e Vita d'un uomo




468x60_generico_gif
Leggi tutto...

lunedì 25 ottobre 2010

Segreto del Poeta - Ungaretti


Solo ho amica la notte.
Sempre potrò trascorrere con essa
D'attimo in attimo, non ore vane;
Ma tempo cui il mio palpito trasmetto
Come m'aggrada, senza mai distrarmene.

Avviene quando sento,
Mentre riprende a distaccarsi da ombre,
La speranza immutabile
In me che fuoco nuovamente scova
E nel silenzio restituendo va,
A gesti tuoi terreni
Talmente amati che immortali parvero,
Luce.

Giuseppe Ungaretti

da Vita d'un uomo e La terra promessa
Leggi tutto...

giovedì 21 ottobre 2010

Una poesia di Alda Merini





I poeti lavorano di notte
quando il tempo non urge su di loro,
quando tace il rumore della folla
e termina il linciaggio delle ore.
I poeti lavorano nel buio
come falchi notturni od usignoli
dal dolcissimo canto
e temono di offendere Iddio.
Ma i poeti, nel loro silenzio
fanno ben più rumore
di una dorata cupola di stelle.

Alda Merini
da Testamento
(nell'immagine il sonno del poeta di Irene Salvatori, olio su tela cm. 80 x 90
http://www.ilventoeleombre.splinder.com/)



728x90_zanox


Leggi tutto...

martedì 19 ottobre 2010

Vi presento un blog amico


Saper usare la penna, a volte, è come saper usare la spada. Ci sono persone che sanno far vibrare la penna proprio come fossero spadaccini professionisti. Conosco poche persone che hanno una tal dote. Piacerebbe anche a me saper dare dei grandi colpi di penna; a volte ci riesco, altre no. È comunque un'operazione difficile. Ci sono persone invece, che sanno far questo con assoluta naturalezza, sembrano nati con la penna in mano e pertanto sanno farne l'uso che preferiscono: sono giocolieri della parola, smontano e rimontano i discorsi a loro piacimento; logica e proprietà linguistiche si fondono creando effetti d'alta classe, eleganti, con totale naturalezza. Poi ti congratuli e loro ti rispondono che in fondo non hanno fatto niente di straordinario. Hanno forse un dono inconsapevole o si divertono a farne uso mascherando inconsapevolezza? E noi, umilmente poggiamo la nostra penna leggendo quella altrui, sorridendo ad ogni colpo, arrossendo dinanzi alla precisione chirurgica con la quale cuciono i loro discorsi, anche quando sembrano buttati casualmente in pasto al lettore mentre invece nascondono la più elegante delle trasposizione dalla logica mentale alla forma scritta. È con questo breve preambolo che voglio presentarvi la nascita di Raddoppiamento Fonosintattico, blog non mio, ma del quale conosco colui o colei che ne cura l'evolversi (e di cui non mi azzardo a svelarne l'identità).
Buona Lettura.
Leggi tutto...

lunedì 18 ottobre 2010

Il cimitero degli elefanti.


Una commedia amara di noi stessi quella che va in scena all'Auditorium Vallisa di Bari. Nicola Valenzano, regista e attore della compagnia locale Badathea, porta in scena dal 21 al 24 ottobre "Il cimitero degli elefanti" di Lilli Maria Trizio, vecchia conoscenza dei palcoscenici romani dove ha diretto per dieci anni il piccolo teatro Aut Aut.

Lo spettacolo focalizza l'attenzione sul declino della poesia e della filosofia che affligge il nostro tempo, nel nome di una concettualizzazione leggera dei grandi temi per renderli accessibili a masse sempre crescenti. Un obiettivo irrealizzabile, perché per poterlo raggiungere è necessario un impoverimento del linguaggio, un modo di comunicare più scarno, leggero, semplice, che si apra alle masse e alla collettività. Una ricerca di sapere collettivo che si tramuta in un impoverimento dello stesso e dei suoi canali. La poesia si appiattisce, nulla di nuovo viene creato, l'impresario si affida al remake: è proprio da qui, da questa amara presa di coscienza che nasce il cimitero degli elefanti. Padrona è e sarà la televisione, mostro che cannibalizza la cultura, l'arte, la forza espressiva del genio creativo. Lo spettacolo vede protagonista un giovane ragazzo, sospinto da una gran voglia di scrivere e sapere; diversi personaggi incontrerà sul proprio cammino (un editore, la figlia scrittrice, Omero, Montale, un impresario ed un filosofo con sua moglie), ma finirà anche lui il suo viaggio nelle fauci mediatiche della regina televisione. Una commedia dalle amare conclusioni, dai risvolti nostalgici per una grandezza che va di giorno in giorno affievolendosi. I grandi poeti e filosofi diventano ormai evanescenze in un mondo dove sempre più coscienze vengono fagocitate da quell'illusionistico bagliore, leggero, collettivo, divoratore di culture.

Il cimitero degli elefanti
di Lilli Maria Trizio

Regia di Nicola Valenzano
Compagnia Teatrale Badathea

Interpreti: Marco Pezzella (Il ragazzo), Saverio Desiderato (L’Editore), Carla Bavaro (La Ragazza), Leonardo Vasile (Omero), Giambattista De Luca (Montale), Fabrizio Fallacara (Impresario), Annamaria Vivacqua (Moglie del Filosofo), Francesco Colonna (Danzatore), Debora Traversa (Danzatore), Marika Mascoli (Danzatore). Le coreografie sono di Alessandra Lombardo e le musiche di Antonio Piscopello.
Costumi:Ideateatro.

Auditorium Vallisa, Bari
Strada Vallisa 2 (centro storico)
ore 21.00
Leggi tutto...

venerdì 15 ottobre 2010

Il mendicante


a Mary

Non voglio soldi
ma sogni,
un estinto sole
colto da una pozza
porto nel taschino

Sogni,
chi ne ha di più?

Raccatto scarti,
dei disillusi visi
faccio collane
che dono per strappare
alle dame i sorrisi.

Sogni,
ne avete ancora?

Non rubo
esploro macerie
per scovare parole
e maschere da indossare
davanti a uno specchio.

Sogni,
dei vostri son vivo!

di Matteo Di Stefano(nell'immagine Il Vecchio chitarrista cieco di Pablo Picasso)
Leggi tutto...

lunedì 11 ottobre 2010

La campana incrinata - La Cloche fêlée - The Flawed Bell

Com'è amaro e dolce, nelle notti d'inverno,
accanto al fuoco che palpita e fuma, ascoltare
i ricordi lontani elevarsi lentamente
al rintocco di campane che suonano nella nebbia!

Felice la campana dalla gola vigorosa
che, pur vecchia lancia fedelmente,
piena e viva, il suo grido religioso
come un vecchio soldato sotto la tenda all'erta!

Io no, io ho l'anima incrinatga; e quando annoiata
lei vuole riempire l'aria fredda delle notti con i canti,
capita spesso che la sua voce fievole

sembri il pesante rantolo d'un ferito dimenticato
in un lago di sangue, sotto un cumilo di morti,
che muore, senza muoversi, tra sforzi immensi.

- Charles Baudelaire, I Fiori del Male
(pubblicata il 9 aprile 1851 in "Le Messager de l'Assemblée")


Versione originale

La Cloche fêlée

II est amer et doux, pendant les nuits d'hiver,
D'écouter, près du feu qui palpite et qui fume,
Les souvenirs lointains lentement s'élever
Au bruit des carillons qui chantent dans la brume.

Bienheureuse la cloche au gosier vigoureux
Qui, malgré sa vieillesse, alerte et bien portante,
Jette fidèlement son cri religieux,
Ainsi qu'un vieux soldat qui veille sous la tente!

Moi, mon âme est fêlée, et lorsqu'en ses ennuis
Elle veut de ses chants peupler l'air froid des nuits,
II arrive souvent que sa voix affaiblie

Semble le râle épais d'un blessé qu'on oublie
Au bord d'un lac de sang, sous un grand tas de morts
Et qui meurt, sans bouger, dans d'immenses efforts.

- Charles Baudelaire, Le Fleurs du Mal


Versione inglese

The Flawed Bell

It is bitter and sweet on winter nights
To listen by the fire that smokes and palpitates,
To distant souvenirs that rise up slowly
At the sound of the chimes that sing in the fog.

Happy is the bell which in spite of age
Is vigilant and healthy, and with lusty throat
Faithfully sounds its religious call,
Like an old soldier watching from his tent!

I, my soul is flawed, and when, a prey to ennui,
She wishes to fill the cold night air with her songs,
It often happens that her weakened voice

Resembles the death rattle of a wounded man,
Forgotten beneath a heap of dead, by a lake of blood,
Who dies without moving, striving desperately.

— William Aggeler, The Flowers of Evil (Fresno, CA: Academy Library Guild, 1954)
Leggi tutto...

martedì 5 ottobre 2010

La Locanda

...il vento spegne le candele e ravviva il fuoco.

Raccontami
della tua locanda
degli uomini soli
dei loro inchini
su fascinose mani.

Matteo Di Stefano
Leggi tutto...

Essenzialità in pochi versi



Senza Titolo (1932)


Quando ogni luce è spenta
E non vedo che i miei pensieri,

Un'Eva mi mette sugli occhi
La tela dei paradisi perduti.

___________________

Preludio (1934)

Magica luna, tanto sei consunta
Che, riempendo il slenzio,
Poggi sui vecchi lecci dell'altura,
Un velo lubrico.


___________________

Silenzio Stellato (1932)

E gli alberi e la notte
Non si muovono più
Se non dai nidi.


Giuseppe Ungaretti, da Sentimento del Tempo (1919-1935)
Presenti nell'antologia Vita d'un Uomo.



500x70_zanox
Leggi tutto...

domenica 26 settembre 2010

La città dei pigri

Potrebbe esserci un vago sentore calviniano in quello che sto per proporvi. In realtà, sembra quasi una città mancante delle Città Invisibili di Calvino. Prima di gridare al plagio però, si rifletta un poco: è possibile che un uomo scriva un racconto che ricordi quello di qualcuno. Certo, in questo caso, avendo letto le città invisibili, potrei finire presto nello scandalo. Tentativi di plagio non ce ne sono.
La città dei pigri ha un suo percorso. Nasce da riflessione su di una osservazione sulla pigrizia: nelle nostre giornate, caratterizzate da corse frenetiche spesso ignoriamo le piccole azioni. O meglio, arriviamo alla conclusione che quella piccola azione è per noi un peso infinito. La rimandiamo, e questo la aggiunge alle cose da fare nel giorno successivo. C'è il rischio, adottando questo metodo, che si accumulino cose da fare, trasformando quella piccola azione in un'ora di lavoro. Perché rimandiamo? Per fatica o per pigrizia? Essendo l'azione piccola, non possiamo definirla faticosa. Pertanto, la conclusione è: pigrizia!
Allora, mi sono immaginato un pigro ideale, moderno, completamente integrato ad una realtà, quella odierna, dove la macchina sostituisce l'uomo dal lavoro alla fantasia. Ci imprigriamo di fronte a tanta comodità, tanto da perdere la volontà di fare piccole cose (cose enormi!). Poi ho immaginato un pigro in mezzo a tanti altri pigri. Ne è venuta fuori una città di pigri, con le sue regole, le sue convenzioni o abitudini, e quell'infinità di pigrizie irrinunciabili.



La città dei pigri


Ho visitato molte città, ma nessuna finora mi ha sorpreso quanto la città dei pigri: i suoi abitanti sbadigliano tutto il tempo. Non hanno voglia di far niente, né lavorare, né svolgere le funzioni più elementari. Stanno stravaccati sul divano nel tempo libero, con il telecomando sulla pancia e, senza pulpiti o smorfie o sussulti, ammirano il paesaggio luminoso sgorgante dallo schermo. Non si alzano mai: hanno accanto una bottiglia d’acqua, qualche sacchettino di frutta essiccata e i fumatori un pacchetto di sigarette. L’accendino, solitamente poggiato sulla pancia, scivola spesso lungo il fianco; questo crea non pochi turbamenti al pigro, in quanto nell’intento di cercarlo è sottoposto a grandi sforzi. Due sono le possibilità: il pigro sente l’accendino premere sul fianco della schiena e - non facile operazione - si contorce cercando di recuperarlo senza alzarsi; prima col sinistro, poi con il destro in una posa da contorsionista. Il tutto accompagnato da sbuffi e rantoli di fatica. La seconda possibilità, consiste invece nel non aver idea di dove si trovi l’accendino, spingendo il pigro ad un’istintiva e faticosa alzata. Si guarda frastornato intorno, da una scrollata alla federa, magicamente vede riaffiorare l’oggetto tanto ambito e tra mille parole in successione, delle quali non se ne raccomanda l’uso, crolla di nuovo tra le brame cuscinose. Capita sovente, che nell’intento di cercare un accendino, il pigro incappi in una successione continua di sparizioni di oggetti: sposta il telecomando, cuscini e via dicendo. Nel fare ciò, non s’avvede che questi escono dall’orbita circoscritta dal raggio di un braccio umano: questo accadimento in genere, diviene informazione nota soltanto una volta che il pigro ha riassunto una posizione comoda. Tali inconvenienti possono turbare, e non di poco, l’umore del pigro.

Neanche le normali funzioni biologiche agiscono favorevolmente sulla volontà del pigro. Infatti, gli abitanti della città dei pigri, vanno al bagno soltanto una o due volte al giorno. Per riuscire efficacemente nella riduzione dei transiti, adottano una vera e propria strategia: non vanno mai al bagno per una funzione isolata. In genere, svolgono le due funzioni simultaneamente; ciò fa si, che nel caso si abbia un solo stimolo, si aspetta sopraggiungere anche l’altro. I gruppi più estremisti, attraverso una severa disciplina di autocontrollo, riescono spesso ad andare una volta ogni due giorni. Hanno una grandissima resistenza fisica e si recano ad espellere i propri scarti corporei soltanto quando sono spinti da forti dolori ormai insopportabili.
Per quanto riguarda l’aspetto culinario, i pigri non sono grandi amanti della cucina – o perlomeno, non amano l’aspetto del fare in cucina – pertanto non cucinano quasi mai. Quando preparano da sé la cena, mangiano pagnotte di pane a morsi, frutta che si può mangiare con la buccia, latticini non spalmabili e ortaggi crudi. Mangiano quindi, soltanto quei cibi che non necessitano di sporcare stoviglie, perché nessuno le laverebbe. Certo, si potrebbero usare piatti, posate e bicchieri in plastica, i quali necessiterebbero soltanto di essere gettati, ma ciò è da escludere perché non è consigliabile cucinare con una padella di plastica. Perciò, la maggior parte della popolazione, ordina il proprio cibo telefonicamente e questo gli viene recapitato da fattorini. Un tempo, erano presenti numerose bettole e taverne che svolgevano questo servizio. Poi, il progressivo impoltronire, ha fatto sparire queste attività. Ora il servizio è svolto dalle città vicine; le portate vengono fatte viaggiare in speciali recipienti che finiscono di cuocere le pietanze durante il viaggio. Questo è reso necessario dal grande traffico che c’è nell’ora dei pasti e, per evitare che le pietanze arrivino fredde ai destinatari, i leader del settore della ristorazione hanno messo a punto questi speciali recipienti. Si è scatenata una vera e propria guerra per servire i cittadini della città dei pigri e molte aziende, previo pagamento di una maggiorazione del 15%, offrono anche il servizio di smaltimento degli scarti.

Molte persone svolgono un lavoro da casa: chi intreccia capelli per parrucche, chi svolge attività di commercio elettronico, chi impartisce lezioni private. C'è anche, però, chi non può permettersi un lavoro da casa e quindi è costretto ad uscire. L’orario di lavoro è ridotto a cinque, è prevista una pausa di cinque minuti ogni venticinque, ottenuta dopo aspre lotte sindacali. Dopo due ore e mezza, al lavoratore è concessa una pausa aggiuntiva di 1 ora nella quale può vedere un po’ di televisione. Non avendo voglia nemmeno di vestirsi, gli abitanti di questa città, adottano diverse strategie per ridurre i propri sforzi. Molti non tolgono mai il pigiama, che costituisce una seconda pelle. Proprio per questo, sono stati studiati speciali pigiami che si adattano, sfruttando il calore corporeo, al corpo di chi lo indossa. Ciò consente di mettere i vestiti sopra il pigiama senza ingombro eccessivo. Altri invece, non usano pigiama, ma dormono vestiti in maniera tale che non debbano disperdere le energie nella vestizione. Portano per quattro o cinque giorni lo stesso abito, che viene poi gettato nella immondizia. Un gruppo altamente stravagante invece, si fa confezionare diversi vestiti di numerose taglie, per dar l’impressione che ogni giorno cambino veste; mettono ogni giorno una taglia più grande cosicché non siano costretti ogni giorno a spogliarsi per mettere un abito nuovo.
Le docce sono costituite generalmente da box spruzzanti vapore e sapone. Molti si lavano con tutti gli abiti in dosso, superando l'inconveniente del lavare separatamente gli indumenti.

Un lato positivo della città, è costituito dall’assenza di automobili – a parte quelle dei fattorini duranti i pasti. Infatti, la città è dotata di un complesso sistema di trasporti pubblici, composto da tappeti mobili trasportanti capsule monoposto; in un complicato intreccio il tappeto mobile raggiunge tutte le vie, nonché tutte le abitazioni fino allo zerbino. Quindi, gli abitanti, escono sul proprio zerbino, montando sulla prima capsula vuota disponibile. Il sistema è attivo 24 ore su 24. Nelle capsule è presente un piccolo schermo, il quale è utilizzabile sia come televisore, sia come video-chat per comunicare con i passeggeri delle altre capsule. Ogni palazzo è munito di ascensori esterni. Uno per ogni lato, collocati alle estremità angolari. Tutti gli ingressi dei piani sono esterni e collegati con l’ascensore, in quanto da tempo non si usano più ingressi centrali dove si accalcavano code di gente. Ora, ognuno può andare diretto al suo piano senza dover passare dal centro. A parte qualche vecchio palazzo, non ci sono scalinate; le fotografie delle scalinate sono raccolte in un album ed esposte nel museo telematico della città.
Ci si potrà chiedere, se in questa città di svogliati, la gente abbia voglia di morire. Come in tutte le città del mondo, la morte non è evento desiderato. Il timore più grande per gli abitanti della città, è proprio quello di dover scomodare la propria anima da posizioni agiate. Il terrore che ci sia una vita dopo la morte è molto accentuato tra gli abitanti; pensare di dover intraprendere un viaggio verso nuovi mondi, senza sapere con certezza se vi sia o meno un sistema di tappeti mobili, genera timori che spesso sfociano in scontri sociali tra credenti e non credenti. La religione ufficiale locale predica l’inesistenza di Dio e della vita dopo la morte. L’uomo nasce pigro e pertanto non può esserci un aldilà che concepisca un fare attivo. Ciò porta all’esclusione di Dio, perché se un Dio avesse creato l’uomo, questo sarebbe stato a sua immagine e, essendo la creazione un attività creativa rientrante nell’ambito del fare, questo escluderebbe l’esistenza di organismi pigri. Dato, però, che si ha una concreta testimonianza dell’esistenza di organismi pigri, ciò porta ad escludere l’esistenza di Dio. Gli atei, invece, non credono che Dio non esista: sostengono che questo creò per l’appunto l’uomo a sua immagine e somiglianza. L’uomo è nato da un non fare. Dio è a sua immagine e somiglianza, pertanto pigro: ciò significa che Dio non può aver creato l’uomo perché pigro. Proprio perché un Dio che non voglia creare è un Dio pigro, essendo inoltre l’uomo pigro, automaticamente si arriva alla conclusione che un Dio c’è, ed è pigro, ovverosia ad immagine e somiglianza dell’uomo. Tuttavia sono ancora inspiegabili i perché, un giorno, Dio scese dal suo divano per creare l’uomo. La tesi più accreditata è che si fosse perso l’accendino e, dopo un’estenuante ricerca, sia entrato in una spirale virtuosa del fare, creando così l’uomo, in una manciata di minuti. . Forse queste sono destinate a rimanere teorie, forse, la città dei pigri è destinata a diventare ricordo. Nella città dei pigri infatti, da tempo non nascono più figli. Gli uomini e le donne hanno smesso di fare l’amore. I loro rapporti da decenni sono fatti solo di parole e più nessuno ha contatti fisici con altri individui. Ci si limita a dichiararsi affetti, senza realmente pensare al sentimento che glielo fa dire. L’amore, è ormai uno scambio di cortesie: nessuno ha voglia di impegnare mente e corpo in un rapporto fisico. Oggi il più giovane abitante della città ha 47 anni e questa vede inesorabilmente diminuire il numero di abitanti. Non si vedono mai nemmeno forestieri, perché questi temono di essere contagiati dalla pigrizia che affligge la città. Non si sa quando tutto questo abbia avuto inizio. Si dice sia iniziato tutto da una sciocchezza: un piatto non lavato, un’assenza a scuola o una scelta non fatta. E da lì, piatti che s’accumulavano e menti decadenti. La pigrizia è andata allargandosi, contagiando un’intera generazione, coinvolgendo tutte le attività degli uomini. Si sono inventati macchinari, passatempi da divano, robot, tutto per venire incontro alle lacune lasciate dai pigri che ogni giorno hanno preteso di più. Le loro volontà si sono spente, fino al completo annullamento, fino a rinunciare alla madre di tutte le attività: rimarrà un ultimo uomo, troppo pigro perfino per soffrire di solitudine, prima del fiorire di una nuova era, di polveri e ricordi.



di Matteo Di Stefano
Leggi tutto...

mercoledì 15 settembre 2010

Malinconia

Accarezzo banchi di nuvole
fluttuanti di malinconie.
Leggendo le vecchie parole
rivedo musicali sorrisi.

Ci meritiamo quell'infinito
o il piombo di queste notti?

Quanto lunghi i tempi appaiono
distanti d'appena un battito
nei respiri di lune straniere,
di luci accese negli occhi.

Nel buio una mano m'avvolge
le dita han profumo d'ortica.

E come una morsa sul cuore
un urlo, sì flebile lamento
inquietante spreme Tenebre
gocciolanti d'amare voglie.

Matteo Di Stefano
Leggi tutto...

martedì 14 settembre 2010

I Seduti - Les assis di Arthur Rimbaud

Per comprendere appieno questa poesia, bisogna che vi si racconti una piccola storiella. Rimbaud frequentava il secondo liceo ed era solito marinare la scuola; si perdeva in lunghe passeggiate, e, quando si sentiva stanco, si recava alla Biblioteca Municipale di Charleville chiedendo volumi malsonanti per le orecchie del vecchio bibliotecario. Libretti orientali, antichi volumi scientifici, opere di Favart. Il vecchio, brontolando, bofonchiava al poeta monello di tornare ai suoi studi classici, in ogni caso apprezzati da Rimbaud. Da qui nasce i seduti: una vendetta nei confronti di quel vecchio "barbagianni" brontolone che sembra far l'amore con la sedia.

I Seduti - Arthur Rimbaud

Neri di cisti, butterati, gli occhi cerchiati di verde,
le dita gnoccolute rattrappite sul femore,
il sincipite cosparso di repellenti bozzi;
come le infiorescenze lebbrose dei muri vecchi,

hanno innestato in amori epilettici
la bizzarra ossatura agli scheletri neri
delle sedie; i loro piedi s'allacciano
a quei pioli rachitici, mattina e sera!

Questi vecchi si son sempre intrecciati alle lor sedie
sentendo i soli ardenti lucidargli la cute,
o, con l'occhio fisso al vetro dove fondono le nevi,
tremando col doloroso tremito del rospo.

E le Sedie usano loro dei favori: patinata
di bruno, la paglia cede ai lati delle reni;
l'anima dei vecchi soli si riaccende, racchiusa
in quelle trecce di spighe dove fermentava il grano.

Ed i Seduti, coi denti alle ginocchia, verdi pianisti,
tambulerrando colle dita sotto la sedia,
si ascoltano sciabordare tristi barcarole
e i loro testoni dondolano in un sentimentale abbandono.

- Non li fate alzare, per carità! È una tragedia...
Sorgono brontolando come gatti puniti,
aprendo le scapole lentamente e con rabbia;
i pantaloni sbuffano sui sederi rigonfi.

E poi li sentite picchiare le teste calve
sui muri scuri e strascicare i piedi,
i loro bottoni sono delle pupille selvatiche
che vi arpionano lo sguardo dal fondo dei corridoi!

Inoltre hanno una mano invisibile che uccide:
al ritorno il loro sguardo filtra il nero veleno
che offusca l'occhio mesto della cagna bastonata,
e voi sudate, stretti in un atroce imbuto.

Si risiedono, con i polsi che navigano negli sporchi polsini,
e pensano a chi li ha fatti alzare,
e, da mattina a sera, grappoli di bargigli
s'agitano da morire sotto i menti sparuti.

Quando l'austero sonno abbassa le loro visiere,
sognano, con la testa sul braccio, di fecondare sedie,
veri amorini di seggiole neonate
che circondino altere scrivanie.

Fiori d'inchiostro, sputando pollini a virgola,
li cullano, accoccolati sopra i calici
come un volo di libellule sull'orlo dei giaggioli.
- E il loro membro s'irrita con le spighe barbute.


Versione Originale

Les assis - Arthur Rimbaud

Noirs de loupes, grêlés, les yeux cerclés de bagues
Vertes, leurs doigts boulus crispés à leurs fémurs
Le sinciput plaqué de hargnosités vagues
Comme les floraisons lépreuses des vieux murs ;

Ils ont greffé dans des amours épileptiques
Leur fantasque ossature aux grands squelettes noirs
De leurs chaises ; leurs pieds aux barreaux rachitiques
S'entrelacent pour les matins et pour les soirs !

Ces vieillards ont toujours fait tresse avec leurs sièges,
Sentant les soleils vifs percaliser leur peau,
Ou, les yeux à la vitre où se fanent les neiges,
Tremblant du tremblement douloureux du crapaud

Et les Sièges leur ont des bontés : culottée
De brun, la paille cède aux angles de leurs reins ;
L'âme des vieux soleils s'allume emmaillotée
Dans ces tresses d'épis où fermentaient les grains

Et les Assis, genoux aux dents, verts pianistes
Les dix doigts sous leur siège aux rumeurs de tambour,
S'écoutent clapoter des barcarolles tristes,
Et leurs caboches vont dans des roulis d'amour.

- Oh, ne les faites pas lever ! C'est le naufrage...
Ils surgissent, grondant comme des chats giflés,
Ouvrant lentement leurs omoplates, ô rage !
Tout leur pantalon bouffe à leurs reins boursouflés

Et vous les écoutez, cognant leurs têtes chauves
Aux murs sombres, plaquant et plaquant leurs pieds tors
Et leurs boutons d'habit sont des prunelles fauves
Qui vous accrochent l'oeil du fond des corridors !

Puis ils ont une main invisible qui tue :
Au retour, leur regard filtre ce venin noir
Qui charge l'oeil souffrant de la chienne battue
Et vous suez pris dans un atroce entonnoir

Rassis, les poings noyés dans des manchettes sales
Ils songent à ceux-là qui les ont fait lever
Et, de l'aurore au soir, des grappes d'amygdales
Sous leurs mentons chétifs s'agitent à crever

Quand l'austère sommeil a baissé leurs visières
Ils rêvent sur leur bras de sièges fécondés,
De vrais petits amours de chaises en lisière
Par lesquelles de fiers bureaux seront bordés ;

Des fleurs d'encre crachant des pollens en virgule
Les bercent, le long des calices accroupis
Tels qu'au fil des glaïeuls le vol des libellules
- Et leur membre s'agace à des barbes d'épis
Leggi tutto...

sabato 11 settembre 2010

Notte

Groviglio di me
di nessuno
Assenza.

Palpitante luna
lungo i margini
e un'anima sola
su riflessi di stelle
traballante.

Matteo Di Stefano
Leggi tutto...

martedì 7 settembre 2010

Odori

Ogni angolo nasconde un respiro
in qualche fessura.


L'alto letto
il divano
lo scrittoio

Non ci sono
zone franche.

Dai laghi
alle città
rimembranze

Non ci resta
che il mondo.

Matteo Di Stefano
Leggi tutto...

martedì 24 agosto 2010

Il mio amante - Wendy Cope


Wendy Cope è una poetessa inglese nata a Erith (Kent) nel 1945. Poco conosciuta in Italia, è una delle voci più importanti della poesia contemporanea inglese. Le sue raccolte, pubblicate per la casa editrice Faber, sono divenute dei bestseller raggiungendo le cinquecentomila copie: un'enormità per dei libri di poesia! Nonostante il vasto consenso in patria, consenso costituito non solo dal pubblico specialistico, quest'autrice è poco conosciuta in Italia. Una sua scelta antologica di 16 poesie è uscita sul numero 104 (Marzo 1997) di Poesia, a cura di M.Paola Bartocci “Wendy Cope: l’ironia della Musa."

Girando ho trovato questa poesia per caso e mi ha destato molta curiosità. Non rientra nei soliti canoni estetici. Non è astrusa e contorta; non cerca immagini impossibili. È realistica, come realistico si rivela il suo amore per quell'uomo. Quanto ci è difficile a volte poter trasmettere agli altri quanto di bello c'è in colui o colei che amiasmo. Quanti poeti hanno avuto muse alle quali hanno dedicato poesie. Spesso di quelle Muse non ci resta che l'emozione veicolata dalla poesia, al punto che ti chiedi: chissà come dovesse essere costei? Il poeta ci mostra un'immagine divina; sappiamo ciò che essa suscita, le immagini che evoca, ma non sappiamo le sue armi. Armi che spesso si rivelano semplici; armi che se rivelate potrebbero portare il lettore alla conclusione che non era poi così speciale. Invece qui troviamo una fotografia, talvolta ironica, di aspetti altresì bizzarri di questo amante. Una sfilza di perché che si traduce in una versificazione terrena, perché terreno è il frutto dell'amore e perché, in fondo, ognuno ha il suo perché per amare: un perché a volte inusuale e che lascia perplessi.
Buona lettura.


Wendy Cope

Il mio amante

E ora parlerò del mio amante, che rimarrà senza nome.
Perché a 49 anni sa fare il rumore di cinque diversi tipi
di camion che cambiano le marce in salita.
Perché a volte lo fa sulle scale del posto dove lavora.
Perché poi si vergogna quando gli altri lo sentono.
Perché sa anche imitare almeno tre tipi diversi di treni.
Perché questi includono: la metropolitana di Londra,
il treno a vapore e il trenino elettrico
delle Ferrovie Meridionali.
Perché tifa per il Tottenham Hotspur con gioiosa
e immutabile devozione.
Perché odia l’Arsenal, i cui tifosi sono rozzi e incivili.
Perché spiega che gli Spurs sono magici, mentre l’Arsenal
è noioso e sta sempre in difesa.
Perché io non ne sapevo niente fino a sei mesi fa,
e non mi curavo di saperlo.
Perché ora tutto questo mi affascina.
Perché lui si esibisce per gradi, dieci.
Perché, primo, si presenta come una persona gentile,
seria e mentalmente libera.
Perché, secondo, affronta molti pranzi, discutendo a tavola
della vita e dell’amore senza mai nominare il calcio.
Perché, terzo, sta attento a non rivelare quanto detesti
avere la peggio in una discussione.
Perché, quarto, parla delle donne del suo passato,
riconoscendo che in parte è stata colpa sua.
Perché, quinto, è talmente ragionevole che tendi a dubitarne.
Perché, sesto, si autoinvita per un drink una sera.
Perché, settimo, in due vi scolate due bottiglie di vino.
Perché, ottavo, si ferma per la notte.
Perché, nono, non vedi l’ora di rivederlo.
Perché, decimo, non si fa vivo per giorni.
Perché avendo raggiunto lo scopo ritorna ai suoi interessi.
Perché non salterà nemmeno un’ora del corso serale
o una sola prova di coro a causa di una donna.
Perché è quasi sempre fuori casa.
Perché non riesci nemmeno a trovarlo al telefono.
Perché è il tipo d’uomo che da generazioni fa impazzire
le donne.
Perché, è triste ammetterlo, questo pensiero non basta
a farti rinsavire.
Perché è affascinante.
Perché è buono con gli animali e coi bambini.
Perché la sua voce è rassicurante e sexy allo stesso tempo.
Perché guida una vecchissima Vauxhall Astra station wagon.
Perché va a 130 sull’autostrada.
Perché quando lo supplico di rallentare dice: “Non intendo
andare piú piano di cosí”.
Perché è convinto di conoscere le strade meglio di chiunque
altro sulla terra.
Perché non insiste per avere consigli dai suoi passeggeri.
Perché se mai dovesse perdersi sarebbe un bell’inferno.
Perché qualche volta mi fa dormire dalla parte sbagliata
del mio letto.
Perché non puoi dargli ordini.
Perché ha questa dote, che gli sta bene mangiare
i bastoncini di pesce surgelati o il cibo cinese già pronto
o prepararsi la cena da solo.
Perché sa come cucino ed è realista.
Perché mi prepara tazze di cacao densissimo con le bollicine.
Perché beve e fuma almeno quanto me.
Perché è ossessionato dal sesso.
Perché non direbbe mai che è sopravvalutato.
Perché è cresciuto prima della società permissiva
e si ricorda della sua adolescenza.
Perché non insiste nel ripetere che è sano e naturale,
né mi chiede cosa vorrei che facesse.
Perché ha alcune idee tutte sue.
Perché non è mai stato capace di dormire a lungo
e la notte parla con me fino a tardi.
Perché ci logoriamo a vicenda con la nostra insonnia.
Perché mi fa sentire come una lampadina che non può
spegnersi da sola.
Perché ispira una poesia dopo l’altra.
Perché è pulito e ordinato ma non si preoccupa
troppo del suo aspetto.
Perché permette al barbiere di tagliargli i capelli troppo corti
e per due settimane va in giro che sembra un carcerato.
Perché quando metto una collana e gli chiedo se
mi sta bene risponde: “Sí, se No vuol dire provarne altre tre”.
Perché è rimasto scioccato quando i compagni di squadra
piú giovani hanno cominciato a usare il talco negli spogliatoi.
Perché la sua mascolinità vecchio stile è per me
fonte di continuo divertimento.
Perché la cosa lo rende perplesso.
Leggi tutto...

giovedì 19 agosto 2010

Una sorpresa

Inimmaginabile visione
al calar del vespro
apparsa come da morenti raggi.

Improvvisa Luna
pallida parvenza di rose
riflessi di danze inattese.

Scesi da alti colli
fruscianti di ciglia
Venti di profumi lontani.

Specchi di vanità stellate,
nelle ossa il freddo
e le mani ancora calde.

Matteo Di Stefano
Leggi tutto...

sabato 14 agosto 2010

Stasera di Giuseppe Ungaretti

Stasera
Versa il 22 maggio 1916

Balaustrata di brezza
per appoggiare stasera
la mia malinconia

di Giuseppe Ungaretti
Leggi tutto...

sabato 7 agosto 2010

Ineffabile

Lo sei davvero
o sol'io così ti veggo
mirabile incanto.

Basito
al cospetto del bello
non conosco la misura
della vastità.

Solo
estraniato in un angolo
colgo una porzione di cielo
e un solitario luccichìo
ineffabile.
di Matteo Di Stefano
Leggi tutto...

mercoledì 14 luglio 2010

La notte dei poeti



Doveva essere un accompagnamento alla protesta dei docenti; il viale era disseminato di candele, le fiammelle crepitavano liberando lievi onde di luce. Le tv, i giornali, cronisti, presidi, rettori. Via vai di studenti che sotto le stelle andavano a sostenere gli esami. La protesta, pacifica. L'era del buio che si prospetta all'orizzonte. Su un marciapiede un microfono, delle casse appoggiate sull'erba. La notte rendeva l'atmosfera magica e i fogli si spiegazzavano al minimo spirar del vento. Doveva essere un evento marginale, come una veglia agli esami che si stavano consumando nelle aule straordinariamente aperte di notte. La Minerva, che tanto incute terrore col suo occhio, si fece languida e divenne regina della notte. S'iniziò timidamente a leggere. Uno ad uno, tanti giovani si alternavano al microfono, leggendo antichi versi o nuovi; tutt'intorno s'andava radunando gente e l'imbarazzo si sciolse. Non importava essere grandi interpreti. Chi con dei fogli, chi con dei libri andava al microfono e recitava la sua poesia alla folla. E nei suoi occhi, il fuoco, nonostante spesso la lettura non fosse impeccabile, il fuoco balenava dagli occhi. Un fuoco che deve essersi acceso una notte di solitudine, o in un giorno particolare, negli occhi che si sono trovati per la prima volta a contatto con quei versi. Trafitti, umiliati, emozionati. Hanno portato e porteranno per tutta la vita il fuoco di quei versi negli occhi. Così, seppur con voci tremanti, o basse, o ridondanti, perfette o imperfette, hanno narrato la meraviglia di quella notte in cui in loro si accese il fuoco negli occhi. Emozionante, stare a guardare, ascoltare, quelle parole librare nell'aria e riempire l'atmosfera. E la retorica di burocrati e politicanti che si smorza al cospetto della Poesia. Chi, chi si ricorda perché siamo qui? Protesta? Quale protesta? La poesia brilla di propria luce e non c'è spazio per ricordare dove viviamo, dove finiremo, sotto quale luna sputeremo il nostro sangue agli Dei. L'obiettivo primario è diventato la Poesia. Leggere, accendersi ed accendere. Parole vaganti di uomini che sono stati in terra ed ora sono nell'aria, un suono che vibra. Non c'è più spazio per ricordare il motivo del raduno. Vecchi, giovani, dotti o stolti, tutti volevano recitare una poesia, tutti almeno una volta hanno respirato con ansia sulle pagine scritte. Tutti hanno versato almeno una lacrima nella vita, sentito fremere il cuore. Si va avanti, per un paio d'ore soltanto ma è quel che basta: i cuori sono colmi, le anime elevate, chissà se per rimanere in aria o riadagiarsi presto al suolo. Non importa! Sembra quasi di essere noi, protagonisti di un film, eroi dell'Attimo Fuggente, membri momentanei della setta dei poeti estinti. Non ci sono armi che tengano, non c'è retorica, non c'è voce che possa urlare così forte da far vacillare le fondamenta di un palazzo, non c'è rabbia, non c'è nessuna forza che possa far vibrare il mondo come può un astuto schiocco sonoro della lingua umana. Finiremo per strada forse, ma è nelle strade che porteremo il fuoco, è lì che continueremo a sopravvivere. Perché non servono edifici ufficiali riconosciuti da uno Stato per raggiungere l'infinito: la poesia salverà il mondo.
Leggi tutto...

mercoledì 30 giugno 2010

Versi distanti un anno

È un mio personale ricorso. Un personale ricordare quel che fu un 30 giungo 2009. Era notte, anzi, mattina. Quasi alba. Un gran muoversi, un gran rincorrersi."non hai sentito rumore?" "sì...lieve...sospirato.."

Un anno appena trascorso da quei versi scritti stancamente in una notte che scorreva fiacca, ancora palpitante per le funeste sensazioni dell'alba. Ah, la Dama ed il suo fascino. Un anno; un anno da quella delirante alba, quel sonno che non arrivava, rovistando negli sperduti anfratti di un ardore che si manifestava all'esterno per la prima volta. Un anno da questi versi, tenuti lontani e riservati a due occhi soltanto. Ancora, ancora allungo la mano per accarezzare dame dormienti. Mi muovo e sospiro, ti cerco nell'aria, creo piccoli vortici. Non ci sei, ma so dove venirti a cercare.

LA DAMA ADDORMENTATA

Ora che i miei occhi sono soli
immersi nel niente da cui distrarsi
velocemente arriva il sonno.

Occhi iniettati di sangue e stanchezza
in veglia ben oltre l'alba contemplando
la meraviglia d'una Dama addormentata.
Silenzioso vegliare
come per paura che il sole del mattino
tramutasse in cenere tal visione celeste.
Amabile Beltà dormiente
se le palpebre d'incanto si fossero schiuse
abbracciando il mattino e trovandomi lì
in estasi pel solo guardarti
avresti letto l'imbarazzo del tuo chiedere
"perché mi guardi?"

Le ore che indenni sorvolavano il tuo volto
pesavano su me dilaniando le viscere
di quest'anima che scopro invecchiata
torturata da desideri e grovigli,
e quell'urlo in me dilaga:
"Stringila a te
come se fosse tua
come stringeresti il collo al tempo
per allentarne lo scorrere.
Stringila a te per poche ore soltanto
prima che il sole la faccia svanire
e correre incontro ai suoi raggi".

Si può uccidere il sonno,
ma anche amarlo.

- Chissà se veramente dormivi
o sentivi il mio avvicinarmi lento
il mio indagare la tua mano
(perfezione a cinque dita)
lo sprofondare la mia faccia
in ricchi riccioli profumati.
Chissà se sentivi il mio prendere fuoco
il rimanermene sospeso nell'alba
ad ascoltare cani ululanti e galli
i miei sospiri, il mio volerti
che non conosco e non so
se sia puro desiderio o delirio inesatto
Lo sfiorare e il ritrarsi
il volere e non osare,
per paura o rispetto
per te
per me
per altri.

Se sapessi!
t'avrei baciato,
sulle labbra chiuse
o anche solo sulla mano.

Matteo Di Stefano
Leggi tutto...

mercoledì 16 giugno 2010

Primi versi

Spesso la gelosia vede anche quello che non c'è.

Questi sono i tuoi primi versi
perché ho atteso un lungo tempo?
Non distillo mai facili lodi
a minime parvenze d'infinito.
Non accarezzo la spuma marina
per toccare di donzelle il core
i baci che libero nelle brezze
son veleno per frivole fanciulle.
Lo parole non mi fanno da scudo
ogni mio fiato ha consistenza.

I versi lungamente ricercati
affiorano da istanti d'oblio
ricordi corrosi dagli acidi
negli orti di annate passate.
Ne conservi di più e più vividi
echi - come emergono gaudenti
dalle sabbie dei miei giorni
le ore febbrili della gaiezza!
Li ho trovati, i versi, sepolti
sotto cumuli di paglia dorata
stesi innanzi a cieli immensi
tra le erbe ch'erano giovani.

Danzavamo ridendo e dannando
l'anima inesperta alla magìa
senza capirne l'oscura potenza
Magìa! Ah la nostra perdizione
a incontrollati impulsi fiabeschi!
Sepolti erano, versi, negli anni
dei miei amori, dei tuoi viaggi
sconfinate distanze della vita
e fu quasi la vittoria dell'oblio!
Ma erano nel gaio sorridere
intatto ai bagliori nuovi d'alba
i versi primi sepolti dal tempo,
non distillo mai facili lodi
ogni mio fiato ha consistenza.

Matteo Di Stefano


Leggi tutto...

lunedì 7 giugno 2010

Silenzio


Si parla per riempire il vuoto

Fin da bambino ho amato
il silenzio; tacevo per ore.
Nei soli più miti fuggivo
nascondendo tra alti fusti.
Sull'erba sedevo immobile
scrutando i polli beccare
smontando e componendo,
il solo pensiero mi bastava.

- Il mondo m'impose la parola!
Rapporti, feste, compagnia
il gaio chiasso della socialità!
Mi dissero che il silenzio
era l'inferno dei dannati
allora imparai a parlare.
Diventai parte del Vuoto
agli stolti presi la stoltezza
ai furbi rubai la furbizia
tra i cani divenni cane!
Imparai a riempire il vuoto
parlai fin troppo, parlai
ma desiderando il silenzio.

M'abbandonai ai fuochi del vino
allo sbronzo strepitio informe
di feste collettive, ma per me
la letizia era non più di tre.
Così assaporai altre visioni
schiusi le porte all'infinito
i cieli si fecero oceani liquidi
l'ombra si confuse al delirio.
Colto da un'estasi selvaggia
finendo dinanzi al demonio
mi ritrovai perdendomi, Sì!
- Odiavo il clamore riempitivo
l'obbligo sociale delle parole
l'euforia di abili millantatori
e chi varcava il mio spazio.
Ho scelto ben pochi eletti
mantengo un sorriso beffardo
compassione e un sacro silenzio.
di Matteo Di Stefano
Leggi tutto...

venerdì 28 maggio 2010

Essenzialità di plastica

(Ponte della velocità, 1913-1915, di Giacomo Balla)

Nel fiorire di campagne brulicanti
perdo piccoli frammenti d'integrità.
Casolari abbandonati, alberi rovesciati
divampare incolto di nature selvagge
la riconquista dei primordi violati.
Ah! In quell'erba annego lo sguardo
negli intrecci verdi e vividi, tra i parassiti
vo' bevendo succo di steli selvatici
come fosse essenza di salvifiche tisane,
il raggio solare che brucia gli occhi
all'infermo profeta nelle buie prigioni.
Rovesciare il tempo di un'epoca abietta
non posso, scoprirò mai la libertà?

Dannate parole, dannati tutti!
Sagome fallaci senza scheletro, via!
Sono io del tempo l'erba maligna
la punta d'arsenico nel calice festoso
il diserbante della rigogliosa demenza
lo schiavo ribelle ai dettami dell'ingordigia.
Voglio stuprare le vostre vanità
ebbre di liquide immagini danzanti
stropicciarvi come fodere di divani
Forza! Abbandonate i rifugi, udite?
È il tonfo sordo delle vostre cisterne
il lucente guscio che avvolge l'insipido
sapore delle essenzialità di plastica.

Matteo Di Stefano
Leggi tutto...

lunedì 24 maggio 2010

Le chiavi dello stesso portone



Le ho riposte nel mio cassetto
le paure, insieme ad altri fogli
scritti, sporchi di spasmi gioiosi
ilari voluttà dell'esistere oggi.

Ce li spartiamo equamente
i brividi della fredda scalinata
sospesi su di un filo d'acrobata
troppo esile pel peso d'entrambi.

Lo stesso con destrezza, in due
volteggiando tra precari istinti
senza un vero perché ci teniamo
in equilibristici silenzi, pieni.


Matteo Di Stefano
Leggi tutto...

domenica 2 maggio 2010

Ode al giorno felice (Oda al dia Feliz) di Pablo Neruda



Questa volta lasciate che sia felice,
non è successo nulla a nessuno,
non sono da nessuna parte,
succede solo che sono felice
fino all’ultimo profondo angolino del cuore.

Camminando, dormendo o scrivendo,
che posso farci, sono felice.
Sono più sterminato dell’erba nelle praterie,
sento la pelle come un albero raggrinzito,
e l’acqua sotto, gli uccelli in cima,
il mare come un anello intorno alla mia vita,
fatta di pane e pietra la terra
l’aria canta come una chitarra.

Tu al mio fianco sulla sabbia, sei sabbia,
tu canti e sei canto.
Il mondo è oggi la mia anima
canto e sabbia, il mondo oggi è la tua bocca,
lasciatemi sulla tua bocca e sulla sabbia
essere felice,
essere felice perché sì,
perché respiro e perché respiri,
essere felice perché tocco il tuo ginocchio
ed è come se toccassi la pelle azzurra del cielo
e la sua freschezza.
Oggi lasciate che sia felice, io e basta,
con o senza tutti, essere felice con l’erba
e la sabbia essere felice con l’aria e la terra,
essere felice con te, con la tua bocca,
essere felice.


Versione Originale




Esta vez dejadme
ser feliz,
nada ha pasado a nadie,
no estoy en parte alguna,
sucede solamente
que soy feliz
por los cuatro costados
del corazón, andando,
durmiendo o escribiendo.
Qué voy a hacerle, soy
feliz.
Soy más innumerable
que el pasto
en las praderas,
siento la piel como un árbol rugoso
y el agua abajo,
los pájaros arriba,
el mar como un anillo
en mi cintura,
hecha de pan y piedra la tierra
el aire canta como una guitarra.
Tú a mi lado en la arena
eres arena,
tú cantas y eres canto,
el mundo
es hoy mi alma,
canto y arena,
el mundo
es hoy tu boca,
dejadme
en tu boca y en la arena
ser feliz,
ser feliz porque si, porque respiro
y porque tú respiras,
ser feliz porque toco
tu rodilla
y es como si tocara
la piel azul del cielo
y su frescura.
Hoy dejadme
a mí solo
ser feliz,
con todos o sin todos,
ser feliz
con el pasto
y la arena,
ser feliz
con el aire y la tierra,
ser feliz,
contigo, con tu boca,
ser feliz.
Leggi tutto...

venerdì 30 aprile 2010

Le farfalle adorano i lillà


Le farfalle adorano i lillà. Ce n’era un plotone da 10 in frenetica estasi danzante intorno a due cespuglietti. Tutte uguali: nere rigate d’arancio. Da tempo si vedevano solo farfalle bianche nei prati. Una farfalla colorata era un evento che destava stupore. Ora dieci tutte insieme s’ubriacavano dei lillà. Una cosa fantastica. Hanno paura, battono l’ali e s’allontanano ad ogni passo d’uomo. Sanno che l’uomo, brutto e rozzo, ammira la bellezza e vuol farla propria catturandola. La imprigiona in una bacheca con una spilla e un etichetta, pavoneggiandosi come se la bellezza di quei colori fosse sua. Le farfalle questo lo sanno bene e fuggono. Non importa se le intenzioni dell’uomo in questione siano buone o malsane. Nel dubbio danno un colpo d’ala e s’alzano in cielo, si posano sui rami alti, troppo per chi non ha ali per volare.

Tutte uguali, tutte della stessa famiglia. Hanno gusti anch’esse: ad ogni colore, ad ogni riflesso è associato un fiore. E le farfalle nere e arancio adorano i lillà. Le bianche i fiorellini selvatici, elisi, che s’alzano di poco dai prati. Infilano la lunga proboscide e succhiano il nettare: è il loro modo di far l’amore. L’uomo non può saperlo come deve essere fare l’amore con un fiore, ma basta osservare la danza gioiosa di quei fragili esserini volanti per condividerne l’ebbrezza. Che sapore avrà un lillà? A sentirne la fragranza invadere l’aria si direbbe soave, dolce, come nessun vino può eguagliare. E sporche di nettare s’alzano un instante, fanno una danza, s’accoppiano con altre farfalle, si poggiano su un altro grappolo. S’alzano, danzano, s’accoppiano, si poggiano. Così per l’interno arco del sole, così per l’intera stagione dei fiori. Poi, sazie e gonfie di linfa zuccherina, coveranno delle uova, dalle uova si schiuderanno delle larve e dalle larve nuove farfalle; e gli anni muteranno i colori in nuove forme, in nuove geometrie, in incantevoli moltitudini. E vivranno, un solo anno, un solo mese o giorno, una sola stagione dei fiori intorno alle piante di lillà.

Le farfalle adorano i Lillà..

Battaglioni di farfalle invadono i lillà
Mentre il sole fa capolino tra gli alberi
E tozzi calabroni ronzano a scatti goffi.

Le farfalle danzano tra i fiori di lillà
Dipingendo l’aria di nero e d’arancio
S’adagiano lievi sui grappoli ricchi.

Volteggiano che pare un dì festoso
E s’odono lanciar beffarde risatine
All’uomo buffo longevo e brutto.

Srotolano lunghe cannucce nei calici
Colmi e gonfi, bramosi come vagine
In attesa di fecondare i loro pistilli:

Corteggiandosi tra le volte azzurre
Burlandosi dell’uomo invereconde
Le farfalle fanno l’amore coi lillà.

di Matteo Di Stefano

Leggi tutto...

lunedì 26 aprile 2010

Confidenze a una zanzara

I miei sensi sono in orgia
nelle ore magre della notte
d'immagini e olezzi remoti.
Sogno in preda al desiderio
di fare il cantore sdolcinato,
ammirando fotografie canto
osannando mirabili bellezze
e te, ignara musa dormiente
a settanta miglia di respiri.

Lo sanno solo i grilli canterini
le ranocchie giù agli stagni
e un'avida zanzara spazientita:
- Degli occhi hai detto mille volte
dimmi, dimmi della carne: tenera?
- Tenerissima! Ah ma gli occhi,
gli occhi....
Leggi tutto...

venerdì 23 aprile 2010

Aracne e il ragnetto salvato.


Aracne, era un'abile tessitrice che viveva nella città di Colofone; si riteneva così abile nel suo campo da ritenersi perfino superiorea Minerva, divinità protettrice delle tessitrici, e la sfidò. La dea Minerva, travestitasi da vecchia, scese sulla terra e si recò da Aracne, cercando di persuaderla a non sfidare la Dea e di scusarsi con essa. Ma Aracne, sicura della propria arte, anziché scusarsi rinnovò la sua sfida e la Dea uscì allo scoperto. Aracne tesse una tela così bella che mandò su tutte le furie Minerva; questa distrusse la tela e s'avvento verso Aracne colpendola con la spola. Aracne tentò di impiccarsi, ma Minerva la sottrasse alla morte tramutandola in un ragno.

Proprio Aracne, o meglio un ragnetto, spunto da sotto la terra mentre rivoltavo zolle di terra con la vanga. Portava un bozzolo rotondo e bianco con sé. Lo spostamento della terra fece scivolare la rotonda sfera di tela di ragno, ma il ragno fu lesto a recuperarla. Era un bozzolo con le uova ed il ragnetto le difendeva coraggiosamente. C'era tutta la sua discendenza in quel bozzolo, tutto la sua vita precedente e quella futura. Ed era meraviglioso vedere come un esserino, così microscopico, che in casa ci va gridare dalla paura e che in un prato ci sembra così indifeso, s'immoli con tanto coraggio di fronte ad un gigante d'uomo. Davo colpi di vanga per sbriciolare le zolle in quel piccolo quadrato di terra che veniva selvaggiamente scosso, ed il ragnetto seppur vacillante era fermo, deciso a non mollare a costo della vita quel bozzolo. Perché, avrei dovuto battere ancora, con non curanza, su quella terra? Avrei potuto spezzare quella gracile vita in un colpo di vanga in modo inavvertito, senza pena, ma ero così affascinato da quella minuscola prova di coraggio che non riuscivo a staccargli gli occhi di dosso. Era nudo, su quel cumulo di terra. Stava in pace, indisturbato e protetto tra le file confuse dell'erba. Ora, sulla nuda terra, era esposto non solo alla mia vanga, ma anche ai predatori che potevano scovarlo in un baleno. Vai allora, sei stato coraggioso. Ed io non sono la Minerva. Così presi il cumuletto con tutto il ragno e lo portai in un punto protetto da foglie, ne scostai un po' e vi feci scivolare il ragnetto col suo bozzolo bianco e le sue migliaia di uova. Hai la tua importanza in questo regno bestiolina; chissà se i tuoi otto occhi hanno memoria per ricordare un essere umano.
Leggi tutto...

sabato 17 aprile 2010

Un immagine al risveglio


(Nella foto: "Sogno causato dal volo di un'
ape intorno a una melagrana un attimo
prima del risveglio" di Salvator Dalì)

c'è una immagine che non dimentico mai
il risveglio del primo gennaio

Passo le notti senza dormire
appeso al mio filo d'acrobata.
Il silenzio come unico amico
è un demone che sorride beffarbo
sul pianto di parole non trovate.

Sembro un mozzo in agonia
sulla poppa di una nave pirata
strisciante verso la sua spada,
che gemendo esala pochi versi
da barattare per un po' di sonno.

Lasciate che io dorma domani
il mondo non reclamerà l'assenza,
lasciate che dorma a lungo
ben oltre il fulgido mattino:
il gioco vostro a me non piace.

Ho pochi desideri pel risveglio
per un sorriso me l'avverereste?
Oh! Son miserie da uomo innamorato
che di candele i bagliori cattura la notte
ed ozia di giorno all'eco d'estinti chiarori.

Una sentinella scintillante voglio
che sorvegli placida i miei sogni
che mi baci senza profferir parola
e di ciò mai sia cheta e sazia!
Per un sorriso, me l'avverereste?

Matteo Di Stefano
Leggi tutto...

venerdì 16 aprile 2010

Sognato per l'inverno (Rêvé pour l'hiver) di Rimbaud


(dedicata al ragno Agenore)
D'inverno viaggeremo in un vagone rosa
con dei cuscini blù.
Staremo bene. Un nido di folli baci si nasconde
in ogni morbido angolino,

Tu chiuderai gli occhi per non vedere, dal vetro,
ghignare le ombre della sera,
collerici mostri, nera plebaglia
di lupi e demòni.

Poi ti sentirai sfiorare lieve la guancia...
un breve bacio, come un ragnetto folle,
i correrà sul collo...

"Cercalo!" mi dirai, chinando un poco il capo,
- ma ci vorrà del tempo per trovar la bestiolina
- che corre senza posa...


Versione Originale

L'hiver, nous irons dans un petit wagon rose
Avec des coussins bleus.
Nous serons bien. Un nid de baisers fous repose
Dans chaque coin moelleux.

Tu fermeras l'oeil, pour ne point voir, par la glace,
Grimacer les ombres des soirs,
Ces monstruosités hargneuses, populace
De démons noirs et de loups noirs.

Puis tu te sentiras la joue égratignée...
Un petit baiser, comme une folle araignée,
Te courra par le cou...

Et tu me diras: "Cherche!" en inclinant la tête,
Et nous prendrons du temps à trouver cette bête
Qui voyage beaucoup...

Arthur Rimbaud
Leggi tutto...

lunedì 12 aprile 2010

Ofelia (Ophélie) di Rimbaud

(Rimbaud scrisse questa poesia all'età di 16 anni)
(il dipinto è di John Everett Millais -1852-)

I


Sull'acqua calma e nera, dormono le stelle,
come un gran giglio ondeggia la bianca Ofelia,
ondeggia lentamente, stesa fra i lunghi veli..
- Dalle selve lontane s'odono grida di caccia.

Son più di mille anni che la triste Ofelia
passa, bianco fantasma, sul lungo fiume nero.
Son più di mille anni che la sua dolce follia
mormora una romanza alla brezza della sera.
Il vento bacia i suoi seni e dischiude a corolla
i grandi veli cullati mollemente dalle acque;
i salici frusciando piangono sulla sua spalla,
sull'ampia fronte sognante si chinano le canne.

Le ninfee sfiorate le sospirano intorno;
ella risveglia a volte, nel sonno di un ontano,
un nido da cui sfugge un piccolo fremer d'ali:
- un canto misterioso scende dali astri d'oro.

II

O pallida Ofelia, bella come la neve!
Tu moristi fanciulla, da un fiume rapita!
- I venti che precipitano dai monti di Norvegia
ti avevano parlato dell'aspra libertà;

e un soffio sconvolgendo le tue folte chiome,
all'animo sognante portava strani fruscii;
il tuo cuore ascoltava il canto della Natura
nei gemiti delle fronde, nei sospiri delle notti;

l'urlo dei mari in furia, come un immenso rantolo,
spezzava il tuo seno acerbo, troppo dolce ed umano;
ed un matin d'aprile, un bel cavaliere pallido,
un povero folle, si sedete muto ai tuoi ginocchi!

Cielo! Amore! Libertà! Qual sogno, mia povera folle!
Tu ti scioglievi a lui come la neve al sole:
le tue grandi visioni ti strozzavan la parola
- e l'Infinito tremendo smarrì il tuo sguardo azzurro!

III

Ed il poeta dice che ai raggi delle stelle
vieni a cercar, di notte, i fiori che cogliesti;
e d'aver visto sull'acqua, distesa fra i lunghi veli,
la bianca Ofelia ondeggiare come un gran giglio.


Versione originale

Ophélie

I

Sur l'onde calme et noire où dorment les étoiles
La blanche Ophélia flotte comme un grand lys,
Flotte très lentement, couchée en ses longs voiles ...
- On entend dans les bois lointains des hallalis.

Voici plus de mille ans que la triste Ophélie
Passe, fantôme blanc, sur le long fleuve noir;
Voici plus de mille ans que sa douce folie
Murmure sa romance à la brise du soir.

Le vent baise ses seins et déploie en corolle
Ses grands voiles bercés mollement par les eaux;
Les saules frissonnants pleurent sur son épaule,
Sur son grand front rêveur s'inclinent les roseaux.

Les nénuphars froissés soupirent autour d'elle;
Elle éveille parfois, dans un aune qui dort,
Quelque nid, d'où s'échappe un petit frisson d'aile:
- Un chant mystérieux tombe des astres d'or.

II

O pâle Ophélia! belle comme la neige!
Oui, tu mourus, enfant, par un fleuve emporté!
- C'est que les vents tombant des grands monts de Norwège
T'avaient parlé tout bas de l'âpre liberté;

C'est qu'un souffle, tordant ta grande chevelure,
A ton esprit rêveur portait d'étranges bruits;
Que ton coeur écoutait le chant de la Nature
Dans les plaintes de l'arbre et les soupirs des nuits;

C'est que la voix des mers folles, immense râle,
Brisait ton sein d'enfant, trop humain et trop doux;
C'est qu'un matin d'avril, un beau cavalier pâle,
Un pauvre fou, s'assit muet à tes genoux!

Ciel! Amour! Liberté! Quel rêve, ô pauvre Folle!
Tu te fondais à lui comme une neige au feu:
Tes grandes visions étranglaient ta parole
- Et l'Infini terrible effara ton oeil bleu!

III

- Et le Poète dit qu'aux rayons des étoiles
Tu viens chercher, la nuit, les fleurs que tu cueillis,
Et qu'il a vu sur l'eau, couchée en ses longs voiles,
La blanche Ophélia flotter, comme un grand lys.

Arthur Rimbaud


Leggi tutto...

giovedì 8 aprile 2010

Il ragazzo che attaccò un manifesto



(proseguo del post precedente "Attacchiamo opere d'arte sopra le locandine elettorali")

Questo era scritto su un grosso manifesto. Un ragazzo armato di secchio spazzolone ed altri manifesti arrotolati, lo aveva attaccato nel bel mezzo di un cartellone elettorale grande almeno tre volte il manifesto. Aveva i capelli scarmigliati, vestito non proprio in modo impeccabile, le scarpe di tela di un bianco ormai divenuto un grigio urbano. Su di una c’era un foro laterale e si vedeva un fondo nero che doveva essere il calzino. Scarpe vissute; forse l’unico paio che possedeva o semplicemente il primo che aveva trovato nell’armadio. Era passato con noncuranza tra la folla ammassata in attesa della metro, tra gli sguardi distratti, fugaci e indifferenti, come se fosse del tutto normale girare nelle metropolitane con secchio e spazzolone. Lo attaccò nel centro, sul volto smaltato del candidato di un’elezione appena passata. Un volto destinato a restare lì per settimane. Era rimasto uno sfondo azzurro ed una mezza scritta rossa “..iamo a te”. Poi se n’era andato, deciso a cambiar luogo e attaccare gli altri che gli rimanevano. Il manifesto non aveva firma, per quel che può valere una firma. Probabilmente era stato lui stesso l’autore; non aveva l’aria di uno manovrato dall’alto, ma semplicemente la faccia spavalda di chi canta alla città il suo grido ribelle e non ha voglia di aspettare che le acque si smuovano da se: il cosiddetto corso naturale degli eventi. Sapeva che non ci sarebbe stato un corso naturale degli eventi, così ha compiuto il suo gesto di sfogo, il suo atto di libertà. Ha preso l’iniziativa, sicuro di suscitar reazioni. In effetti, l’indifferenza si è tramutata da subito in una curiosità timida. Qualcuno di sottecchi lo guardava, tenendosi a debita distanza con l’espressione di chi pensa di trovarsi davanti un vandalo, solo perché non porta una bella cravatta come la tua. Reo! Reo di cosa? Reo di aver usurpato il paesaggio post-elettorale, insozzato la città con delle parole? Studenti assuefatti dai loro i-pod, casseforti di sicurezze sonore, hanno buttato un’occhiata assente, senza capire e senza chiedersi nulla. S’appoggiavano alle pareti, le spalle basse, la testa che annuiva senza che nessuno rivolgesse loro domande. Poi il treno è arrivato. Se ne sono resi conto solo quando il punto fisso che scrutavano con attenzione solenne, è stato violato dal movimento del treno che s’adagiava sui binari. Sono saliti con la stessa faccia di assenza, senza un’emozione.

Alcune signore si sono avvicinate, hanno letto, poi sbuffando si sono fatte da parte, detto “troppo lungo” e controllato sulla tabella luminosa quanto mancasse all’arrivo del prossimo treno.


Reazioni più che prevedibili; questo lo sapeva bene il ragazzo che ormai era scomparso nella folla. Flusso e deflusso continuavano incessantemente; le porte mangia uomini s’aprivano, sputavano via gli indigesti pendolari e ne ingurgitavano degli altri, chissà, forse sperando che fossero più saporiti. Intanto il manifesto era lì, e nel continuo avvicendarsi di genti qualcuno lo ha letto tutto. Annuendo, ritraendosi con l’occhio improvvisamente acceso di chi ha avuto un’illuminazione, immediatamente spenta dalla consapevolezza che quello non era che un sogno. Se fosse passato di lì uno, almeno un pazzo, uno altrettanto deciso a smuovere le acque stagnanti, forse davvero si sarebbe creato un movimento, un vocio diverso dal normale sottovoce sterile. Il vento freddo che soffiava nelle gallerie avrebbe gonfiato le vele delle personalità addomesticate, avrebbe fatto pensare, almeno per un momento, di essere sulla poppa di una nave salpata per raggiungere porti di mondi inesplorati. Ma non fu un gesto inutile. Non tutto fu vano. Piccoli gruppi di insofferenti si trovavano a passare. Nutrivano lo stesso sentimento di rifiuto delle cose così com’erano. Dello schiavismo televisivo, del parlare del tutto e del niente, del muoversi automatico e inconsapevole. Hanno letto con gusto. “Questo è un grande, vorrei conoscerlo!” “Ha ragione” “Tu dipingi, perché non attacchi uno dei tuoi dipinti?” “Io potrei attaccare una poesia” esclamavano con enfasi. E la loro enfasi ha coinvolto qualche vicino distratto che ha chiesto cosa ci fosse di così straordinario. Hanno spiegato, parlato con sicurezza. Le altre genti si giravano, incuriosite si sono recate sotto il manifesto a leggere. Una donna sui 50, con una valigetta da ufficio ed un’altra, con una bambina tra le braccia, si sono guardate. “Sarebbe bello se ciò accadesse” ha detto la donna con la bambina. “Ha ragione. I marciapiedi sono invasi da quel che resta delle elezioni” aveva risposto l’altra. Era appena accaduta una cosa straordinaria: si era creato un contatto. Un piccolo, infinitesimo istante di comunicazione tra due persone che non si sarebbero mai scambiate parola altrimenti. Si era incrinata la spessa parete di ghiaccio che le divideva. È arrivato il treno, sono salite insieme ed hanno continuato la loro conversazione, scambiando opinioni e riflessioni sulle loro scelte di vita così distanti. Da quel giorno, si incontrano sempre e scambiano parole.

Come loro, altri si sono ritrovati compagni di viaggio, non solo tasselli di un puzzle componibile o divisori della stessa aria. Era un giorno qualsiasi, un martedì di febbraio, un martedì 16 febbraio uggioso e freddo. Un giorno come gli altri, o quasi. Un giorno in cui un ragazzo coi capelli scarmigliati, scarpe di tela forate ed un abbigliamento non certo impeccabile, attaccò un manifesto.


Il dipinto nella foto è di Andrea Del Pesco
Leggi tutto...